la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella Domenica della Santissima Trinità
secondo il rito ambrosiano


22 maggio 2016



 

 

Gen 18,1-10a
Sal 104
1Cor 12,2-6
Gv 14,21-26

Il mistero della Trinità l'abbiamo quasi segnato sin da piccoli sulla pelle. Con il segno della croce. Dove la sosta delle parole non è tanto sul termine astratto "Trinità". Ma sui nomi: Padre, Figlio, Spirito santo. Suggestiva - a ben pensarci - la legatura della croce ai nomi. I nomi nell'abbraccio della croce, con cui ci segniamo.

I nomi ce li ha ricordati anche oggi Gesù nel vangelo, non ci ha parlato di numeri. E insieme ai nomi, nel nostro piccolo brano, ripetuto, insistente, quasi una canzone che ti accompagna e non ti lascia, un verbo. Legato a quei nomi che dicono volti, legato ai nostri nomi che dicono volti, il verbo "amare".

Abbiamo letto: "Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui". Voi avete certamente notato quanto ripetuto questo verbo, che diventa, direi, il verbo di Dio e, insieme, il nostro verbo.

La Trinità è in questo verbo. Che è un verbo contro la solitudine: Che bello pensare che in Dio non c'è una solitudine. Come potrebbero, fraintendendo, farci pensare altre immagini che gli attribuiamo: "onnipotente", si può essere onnipotenti e soli; "immenso", si può essere immensi e soli"; "trascendente", si può essere trascendenti e soli.

Perdonate se riduco - ogni nostra parola, ogni mia parola riduce - perdonate se riduco gli orizzonti affermando che dire "Trinità" significa dire che Dio ha un cuore. Ha un cuore Dio! Dio è un amante. Lo scopriamo nella comunione che stringe Padre, Figlio e Spirito santo, lo scopriamo nella comunione che lui stringe con noi.

Ebbene vorrei aggiungere che nel piccolo brano del vangelo di Giovanni, insieme al verbo amare, il verbo di Dio, mi colpivano, a una lettura quest'anno, altri verbi che vorrei chiamare di movimento. Gesù è un inviato: "Il Padre mi ha mandato". Lo Spirito è un inviato: "Lo Spirito che il Padre manderà nel mio nome". E poi quella affascinante promessa: "noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui".

Verremo! Il brano sembra ricordarci che il verbo amare non è statico, è verbo di uscita, di movimento, mette in moto "verso". Ebbene se l'amore non ci mette in mette in moto, non ci fa uscire, guardiamoci dal dire che il nostro è amore, è un abbaglio di amore. Dio è uscito creando; il Figlio è uscito facendosi uomo; lo Spirito è uscito riempiendo la terra. L'amore mette in moto.

Quando il nostro amore è vero, mette in moto noi stessi, è verbo di uscita, di ricerca, non basti a te stesso. Non so se è corretto dirlo: Dio esce, come se non bastasse a se stesso: "noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui".

Forse potremmo rileggere il brano della Genesi che oggi abbiamo ascoltato, un episodio bellissimo della vita di Abramo, proprio alla luce di queste parole del vangelo: "Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui". Nei personaggi che passano accanto alla tenda di Abramo la tradizione ha voluto intravvedere un passaggio di Dio, un passaggio di Dio dentro il segno luminosissimo dell'ospitalità della tenda di Abramo.

C'è una tenda. Siamo nell'ora più calda del giorno, improbabile che passi qualcuno. E invece è come se Abramo fosse in qualche modo in attesa. La tenda non lo richiude, neppure l'ora calda del giorno lo chiude: "egli sedeva all'ingresso… alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui".

Mi chiedo se non sia questo, o se non debba essere questo, il nostro atteggiamento nei confronti del divino. Ci è cara - la abitiamo - la tenda; ma beati noi se, come Abramo, sappiamo stare all'ingresso, se la tenda della vita non è ermeticamente chiusa, se il lembo è alzato e i nostri occhi sono come di chi spia fuori, spia oltre. Perché è scritto "verremo", quasi una promessa.

E non è scritta l'ora. Ma soprattutto non sta scritto che sia una venuta per un controllo, ma per una diimora: "Verremo e prenderemo dimora". Bellissimo! La venuta è per una ospitalità. Venuta benedetta! E' una benedizione. Tant'è che ad Abramo viene spontaneo - gli viene dal cuore - dire: "Non passare oltre senza fermarti dal tuo servo".

Quasi a dire che l'ospitalità è una grazia. Noi pensiamo che sia una grazia per chi viene ospitato. Pensate, nel racconto è una grazia per chi ospita. Non sempre ci pensiamo! E Dio entra, Dio si ferma, se sei ospitale, se ti appartiene un cuore ospitale, vorrei dire pregiudizialmente ospitale.

E forse anche questo è affascinate pensare che ad Abramo proprio per il suo modo di essere ospitale, senza saperlo, capitò di ospitare Dio. Nella tenda, tutto si mette in moto, è un correre, è un affrettarsi per organizzare, per predisporre, per offrire, senza misurare, nel segno dell'eccesso.

C'è quasi uno specchiamento - perdonate se lo chiamo così - quasi una specchiamento tra la Trinità e la tenda. Dire "Trinità" è dire il luogo della tenerezza, ebbene anche dire la "tenda" è dire il luogo della tenerezza, il luogo in cui si specchia la tenerezza di Dio, la tenerezza ospitale. E il frutto? Il frutto di questo "verremo e prenderemo dimora"?

Il frutto della tenda che si apre? Solo un accenno. Gli dissero: "Dov'è Sara, tua moglie?". "E' là nella tenda". "Tornerò a te tra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio". Ecco il frutto di una tenda ospitale: è nel segno della nascita, della vita. Lontana finalmente dalla dannazione della sterilità.

Forse ci farebbe bene ricordarlo, quando chiesa, società, stagioni che viviamo sembrano tristemente sterili, avvitate su se stesse, incapaci di sussulti di grembo. Non sarà che la tenda ha chiuso i teli? E non ci si accorge di chi passa nell'ora più calda del giorno? Domanda! Al passaggio di Dio nasce vita.

Ma forse c'è un'altra trasformazione che avviene su cui raramente indugiamo. Ed è quella della donna. Sara, la donna confinata diremmo nei lavori di cucina, assente nel dialogo con i tre ospiti, quasi nascosta, è come rimessa al centro dell'attenzione, viene chiamata in causa, come se uscisse da una dimenticanza colpevole.

E non sarà - mi chiedo - che proprio anche a questo chiami il venire e il dimorare di Dio, il venire e il dimorare della tenerezza? Che finalmente le donne non siano confinate dietro le quinte per un mero passivo servizio, ma siano riportate sul proscenio. Con tutta la loro intensità.

La Trinità. E la tenda. Parole che bussano.

 

 


 
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