la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella terza Domenica di Quaresima
secondo il rito ambrosiano


28 febbraio 2016



 

 

Dt 6,4a; 18,9-22
Sal 105
Rm 3,21-26
Gv 8,31-59

Ogni anno alla terza domenica di quaresima ci tocca la fatica di entrare in questo dibattito tra Gesù e un gruppo dirigente dei giudei. Non erano giorni facili per Gesù. Dobbiamo ricostruire il clima in cui avviene questo scontro.

Erano giorni di festa, siamo nello spazio sacro del tempio. Gesù quell'anno alla festa era salito quasi di nascosto, ormai era nell'occhio del ciclone: in qualche modo era un sorvegliato speciale, uno che aveva aperto una strada nuova, aveva dato inizio a un movimento spirituale che suscitava domande e reazioni.

Giovanni nel vangelo annota: "I Giudei intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: "Dov'è quel tale?" E la folla, sottovoce, faceva un gran parlare di lui. Alcuni infatti dicevano: "E' buono". Altri invece dicevano: "No, ma inganna la gente". Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudei" (Gv 7, 11-13).

Che lo si volesse uccidere era ormai risaputo, tant'è che molti si meravigliavano che gli si permettesse di parlare nel tempio. In verità proprio in quei giorni i Giudei avevano messo in atto un piano per arrestarlo. Ma il piano era andato buco: coloro che erano stati mandati per arrestarlo, non se l'erano sentita. C'è qualcosa di inquietante anche per noi nel racconto, soprattutto se non ci sfugge che le malattie della religione non riguardano solo il passato, ma ogni tempo, ogni stagione.

Questa, che trapela dal nostro brano, è una malattia mortifera. Ha esiti di morte. Chi se ne lascia contagiare diventa, spaventosamente, mortifero. Forse che non sta scritto: "Allora raccolsero delle pietre, per gettarle su di lui". Mi direte che sta scritto anche: "Ma Gesù si nascose e uscì dal tempio". Ma voi sapete che fu semplicemente una morte rimandata.

Religione mortifera. Forse i sintomi della malattia li sorprendiamo mettendo a confronto il brano della samaritana al pozzo con questo dei Giudei nel tempio. Ricordate, là le parole uscivano come di vento, portavano lontano, facevano sognare. Qui le parole stagnano, sono immobili, fanno morire. Là accadeva che si liberava per grazia dalle pietre il pozzo ed era gorgogliare di sorgente. Qui al contrario è la stagione delle pietre, parole come pietre, e qualcuno a rischio di pietre.

La nostra riflessione potrebbe indugiare sulla polarità: immobilità e cammino, ravvisando proprio nella immobilità il segno della morte. Ci si barrica dietro le propria identità. E - voi certamente l'avrete notato - quanto più le identità sono spente, formali, tanto più sono declamate e sbandierate.

Se siamo figli di Dio o discendenti di Abramo basta la nostra vita a dirlo, non occorrono parole, soprattutto parole dure. Come puoi dire "Dio" o "Abramo" con parole dure, come succedeva a quei giudei? Ma vale anche oggi, vale per noi. Vorrei sostare ma brevemente sul riferimento ad Abramo, anche perché nella nostra liturgia questa domenica passa con la titolazione: "domenica di Abramo". Si rivendica una discendenza da Abramo.

Ma Abramo non era certo l'uomo della immobilità, all'opposto era l'uomo del cammino, del viaggio. Non inizia forse così il racconto della sua vita, con questo invito da parte di Dio a lasciare la terra: "Vattene dalla tua terra / dalla tua parentela / e dalla casa di tuo padre / verso la terra che io ti indicherò. / Farò di te una grande nazione / e ti benedirò"? (Gen 12,1-2).

Abramo - lo immaginiamo - avrebbe avuto mille motivi per restare: passare da una vita in cui ciò che hai lo vedi, lo tieni stretto, a una vita in cui ciò che avrai è solo una promessa. E c'erano giorni in cui la promessa tardava. Ma non è forse questa la vita? Non è forse fatta anche di giorni in cui in cui la promessa di Dio sembra lontana, sembra non avverarsi, e tu stai, come Abramo su quella parola. E sperimenti che stare su quella parola ti rende libero.

Gesù ai giudei dice: "Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". Ma loro hanno chiuso la religione in un sistema, in un insieme di codificazioni, sono rigidi, sono immobili, non percepiscono il nuovo, il vento nuovo, che abita le parole di Gesù. Lo riconosceva la samaritana. Il pericolo esiste ed è quello di una riduzione della religione a una sorta di assicurazione sulla vita, di benedizione dell'esistente.

Si passa da una religione della profezia a una religione degli incantesimi. E' ciò da cui metteva in guardia il suo popolo Mosè nel brano del Deuteronomio, cioè dal pericolo che per esorcizzarci dall'ansia per il futuro, ci si lasci prendere da una religione che va in cerca di chi esercita la divinazione, di chi fa incantesimi, di chi consulta negromanti e indovini, di chi interroga i morti. Mentre da interrogare è la vita. Alla luce della Parola che ispira cammini.

Ci ritorna la domanda: una religione che è avvitamento su noi stessi e scaramanzia sul presente, dentro la quale ci difendiamo e ci abbarbichiamo o una fede che ci mette in cammino ogni giorno come Abramo confidando in ciò che ancora non vediamo? E come potevano rivendicare discendenza da Abramo quei Giudei che altro non sapevano fare che giocare in difesa, impermeabili al nuovo?

Per di più la loro - vorrei aggiungere, finendo - era una identità ridotta, rattrappita, sclerotizzata, anche come visione del mondo. Erano loro e basta. Nel brano domina ossessivamente il "noi": noi, noi, noi! All'opposto, Abramo, di cui vantavano la discendenza era l'uomo delle stelle.

Non è forse vero che al capitolo 15 della Genesi leggiamo: "Poi Dio lo condusse fuori e gli disse: "Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare". E soggiunse: "Tale sarà la tua discendenza""? Barricati nel tempio o fuori a guardare le stelle, ad ascoltare le stelle, a gioire, sì dico gioire di una umanità corale?

Nella consapevolezza che è in questo modo che tu diventi una benedizione, una benedizione per i popoli, benedizione per la terra. Come Abramo. Cui fu detto: "In te saranno benedette tutte le famiglie della terra". Pensate, "tutte le famiglie"! "Della terra"!

 

 


 
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