la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nella 2a Domenica dopo il martirio di San Giovanni
secondo il rito ambrosiano


11 settembre 2016



 

 

Is 5,1-7
Sal 79
Gal 2,15-20
Mt 21,28-32

Essere teneri non vuol dire essere sbiaditi, oggi si direbbe, essere "buonisti". La tenerezza va di pari passo con la passione. E la passione può anche farti dire parole forti. Lo pensavo rileggendo il brano del profeta Isaia. Che per lo più passa con il titolo: "il canto di amore di Dio per la sua vigna", per il suo popolo. Ed è vero: c'è tenerezza, struggente, ma c'è anche disappunto, indignazione e minaccia.

Questo ci fa subito dire che Dio non è un anaffettivo. Uno che non si sbilancia nei sentimenti, uno che non ti sfiora, nemmeno quando ci si abbraccia. Questa è stata ed è una cattiva narrazione del nome di Dio. E della religione. Il brano di Isaia ricorda come ci si possa anche innamorare di una vigna, come Dio si innamori della vigna, che siamo noi: "cantico d'amore per la vigna". Poesia d'amore! Un Dio che fa poesie d'amore!

Il testo ricorda quante cure appassionate da parte di Dio! Spinte al limite del possibile: "Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?". Ma poi il testo evoca la delusione di chi ha amato, il disappunto per una vigna che altro non seppe fare che dare acini acerbi! "La renderò un deserto... Vi cresceranno rovi e pruni".

Penso sia interessante notare che cosa Dio aspettasse dalla sua vigna e di conseguenza dove stia l'origine della sua riduzione a deserto: "Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi". Di per sé Dio non si aspettava, che so io, preghiere devote, processioni osannanti o declamazioni religiose. "Si aspettava giustizia… attendeva rettitudine ". Due parole da mettere in memoria: "giustizia… rettitudine".

E a svelare, con chiarezza inoppugnabile, la nostra assenza di giustizia e di rettitudine, due piaghe. Che non sono solo dei tempi del profeta, ma anche dei nostri tempi: "Spargimento di sangue… grida di oppressi". Ecco che cosa sta a cuore a Dio e che cosa, in loro assenza, fa il male della terra: "giustizia, rettitudine". L'esame di coscienza non è dunque sulle dichiarazioni, le nostre belle dichiarazioni, ma sui fatti. E, dicendo questo incrociamo la parabola di Matteo. Di cui importante, al fine della sua comprensione, è il contesto.

La piccola parabola di Gesù sui due figli e le parole roventi che la concludono - "pubblicani e prostitute vi passano avanti nel regno di Dio" - nascono in un contesto ben preciso, nascono dentro una discussione sull'autorità tra Gesù e i suoi oppositori.. Con che autorità tu, Rabbi di Nazaret, ti arroghi il diritto di un ingresso trionfale nella città di Gerusalemme? Con che autorità scacci dal tempio venditori e compratori, rovesciando i tavoli dei cambiavalute e i banchi dei venditori di colombe? Con che autorità tu indugi nel tempio ad insegnare? Come a dire: "Fuori i titoli! Non sei abilitato a farlo!".

Per i sacerdoti e gli anziani era una questione di titoli, di cariche e loro avevano titoli e cariche! Erano abilitati a farlo. Gesù sovverte alla radice questo pensiero che privilegia la carica, il titolo. "Ma allora… Giovanni il Battista aveva titoli o no per battezzare?". E quelli rimangono senza parola! "Venne a voi sulla via della giustizia e non gli avete creduto, i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto". Gesù racconta la parabola, per dire che decisive, per il regno di Dio, non sono le parole, i titoli, le cariche, le qualifiche.

Decisivi sono i fatti, o meglio ancora, decisivo è il cuore: un cuore che si apre al cambiamento. Noi viviamo in un mondo dove contano, contano tanto, le parole, le belle parole. E contano, contano tanto le immagini, il culto dell'immagine. Conta il ruolo, conta la posizione, conta la carica, conta l'apparenza: ciò che appare!

Anche oggi può capitare che vengano ritenuti cristiani quelli che a parole si proclamano cristiani, quelli che si ergono a difensori della fede, quelli che giudicano la fede o la non fede degli altri, l'ortodossia o la non ortodossia degli altri… come succedeva ai tempi di Gesù, come succedeva ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo.

Con il rischio che costoro, che pronunciano spesso il nome del Signore o le ragioni della fede, vengano legittimati per cristiani, per i veri cristiani. Quando il criterio - stando al vangelo - dovrebbe essere un altro: non che cosa dici, ma che cosa fai, se ti sei convertito con la tua vita al vangelo, a Gesù, oppure no.

Di parole - dicevo - se ne dicono tante. Il secondo figlio della parabola è quello delle belle parole: "Sì, Signore", dice al padre. Notate il rispetto: lo chiama "Signore". Un galateo perfetto. Un mondo religioso - voi mi capite - fatto di parole perfette, di documenti ineccepibili. Ma poi nella vigna a lavorare non vai, nella vita dove c'è da sudare non ci sei.

Non è questione di parole. Né di quelle belle né di quelle brutte. Certo, se noi giudicassimo il primo figlio dalle espressioni - uno che all'invito del padre risponde brutalmente: "Non ne ho voglia"-, grideremmo allo scandalo. Non fermarti alle parole. Quante parole possono sembrare brutali, anche dal punto di vista religioso, parole indisponenti. Va' al di là. Quell'uomo o quella donna, a differenza di noi che diciamo sempre "Sì, Signore", forse è tra quelli che poi, nella, vita non si tirano indietro - non si tirano mai indietro -. Ci sono! Non sono immobili.

Forse è questa la differenza, o anche questa: "immobili" i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo; "capaci di passi" i pubblicani e le prostitute. Gesù alla fine del suo ministero sembra fare un bilancio, un consuntivo della sua missione - siamo alle ultime battute del vangelo di Matteo - : chi si è mosso e chi non si è mosso?

Non era forse vero che alla sua predicazione e a quella del Battista sorprendentemente si erano aperti e mossi "prostitute", "pubblicani"? Loro aperti a un cambiamento. Al contrario, quelli che, stando a nomi e a titoli, sarebbero dovuti essere in prima fila, non si erano aperti né si erano mossi. Succede quando domina la presunzione, quando ci si rifugia dietro le apparenze. Domina allora la rigidità, l'immobilismo, il guardare dall'alto in basso.

Come sarebbe bello invece che io andassi nella vita con gli occhi di Gesù e ogni tanto mi sorprendessi a dire: "Mi passano avanti nel regno di Dio!".

 

 


 
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