la parola della domenica

 

Anno liturgico C
omelia di don Angelo nell'undicesima Domenica dopo Pentecoste
secondo il rito ambrosiano


31 luglio 2016



 

 

1Re 21,1-19
Sal 5
Rm 12,9-18
Lc 16,19-31

Immaginate la fatica di parlare oggi dopo l'efferata uccisione di Padre Jacques. E non solo di Padre Jacques. Forse troppe anche le parole. A volte mi rifugio in una immagine: le porte della sua chiesa erano aperte, il suo cuore, cuore di un tessitore di dialogo, era aperto. Come quello del suo Signore. E mi illumino.

E vengo ai testi di oggi. Vorrei iniziare dalla prima lettura, che ci ha raccontato della vigna di Nabot. Confesso che leggendo mi prendeva commozione per quel legame che Nabot provava per la sua vigna, piccola vigna, ma per lui sacra, era l'eredità dei suoi padri. Mai e poi mai l'avrebbe venduta.

Quella vigna aveva però un difetto: confinava con i possedimenti del re e il re pretendeva di inglobarla nel suo giardino. Ebbene - cosa che mai e poi mai avrebbe immaginato - il re Acab si trova a fare i conti con il rifiuto di Nabot. E' amareggiato. Il libro racconta del suo animo devastato da quel rifiuto: aveva sempre pensato che tutto e tutti si sarebbero dovuti piegare davanti al suo potere e invece no, ecco che un piccolo uomo fa resistenza.

Il libro racconta anche di Gezabele, moglie del re, e del suo piano perverso, scellerato, spregiudicato: si troveranno testimoni falsi, diranno che hanno sentito Nabot maledire Dio e il re. Si trovano. I piccoli, il potere li stritola. Nabot viene lapidato. Acab scende a prendere possesso della vigna, ma proprio nel giorno in cui scende a prenderne possesso, scende anche il profeta Elia e con lui scende nella vigna la parola rovente di Dio che mette il re con le spalle al muro.

Immagino che tutti voi abbiate pensato: una delle tante storie del mondo, storia di piccoli, calpestati dai potenti della terra. Storie che ci riempiono di una amarezza infinita e che suscitano in noi sentimenti di ribellione, di sdegno. Storia, anche questa, di una attualità bruciante.

Ne ha parlato papa Francesco, mercoledì 24 febbraio, nella sua udienza generale in piazza san Pietro e, proprio a mezzo del commento, disse: "Il grande Sant'Ambrogio ha scritto un piccolo libro su questo episodio. Si chiama "Nabot". Ci farà bene leggerlo in questo tempo di Quaresima. È molto bello, è molto concreto". "Questa" aggiunse "non è una storia di altri tempi, è anche storia d'oggi, dei potenti che per avere più soldi sfruttano i poveri, sfruttano la gente. È la storia della tratta delle persone, del lavoro schiavo, della povera gente che lavora in nero e con il salario minimo per arricchire i potenti. È la storia dei politici corrotti che vogliono più e più e più! Per questo dicevo che ci farà bene leggere quel libro di Sant'Ambrogio su Nabot, perché è un libro di attualità".

Ci vorrebbero - mi sono detto - dei nuovi Elia. Ci vorrebbero dei profeti, che scendono nella vigna sottratta a chi ne aveva diritto. A chiedere conto, a nome di Dio. O forse ci sono i profeti e non li ascoltiamo. Penso alla tenacia con cui questo papa scende nella vigna, scende nelle situazioni concrete dei nostri giorni, per far risuonare un altolà all'ingiustizia, alla corruzione, allo sfruttamento, che sono il male dei piccoli, dei Nabot della terra.

Ma non bastano i profeti - anche se sono una benedizione - occorre che noi li ascoltiamo. Vorrei anche aggiungere: che non ci facciamo beffe di loro. Lo aggiungo, passando nella riflessione, alla parabola di Gesù, la parabola del ricco e del povero Lazzaro, una parabola molto conosciuta. Non sempre ci si sofferma a chiedersi per chi Gesù ha detto la parabola. Per i farisei, meglio potremmo dire: per quel gruppo di farisei.

Lui aveva fatto discorsi stringenti sulla ricchezza. "O Dio o la ricchezza!": aveva gridato in faccia a loro. "Non potete servire Dio e la ricchezza". E Luca scrive: "I farisei che erano attaccati al denaro, ascoltavano e si facevano beffe di lui". E' in questo contesto che Gesù racconta la parabola.

La parabola andrebbe ripercorsa in ogni suo passaggio. Io vi lascio ai tanti commenti e vorrei semplicemente sottolineare qualche dettaglio; ogni volta che leggi ti sorprende un dettaglio. Del ricco non è detto che avesse commesso chissà quali malvagità. Di lui è detto innanzitutto che "indossava vestiti di porpora e di lino finissimo e ogni giorno si dava a lauti banchetti".

Oggi diremmo che la sua testa era nei vestiti "firmati", nei banchetti mozzafiato. Ma che cosa nasconde tutto questo? Forse ce lo potrebbero spiegare gli studi sulla psiche umana. E' l'estremo tentativo di nascondere la nudità interiore, il vuoto interiore: più una persona è meschina e più ha bisogno di orpelli esteriori, di cose per apparire, nel desiderio di contare.

Al contrario più una persona è ricca dentro e più la sua sarà una vita semplice, discreta, sobria, all'insegna della naturalezza e della autenticità. Ma che cosa ancora appare devastante e inquietante nella vita del ricco? La sua totale mancanza di immedesimarsi nella sofferenza dell'altro. Che non è chissà dove, è alla sua porta. Un vuoto di sensibilità che è un vuoto di umanità.

La parabola ce lo richiama dicendoci: meglio di lui i cani! Lazzaro è un escluso. Escluso dagli occhi, come non esistesse: meglio che stia fuori, con la sua visione sporcherebbe, disturberebbe la brillantezza dei banchetti. Termino qui, termino su una parola su cui già altre vote abbiamo sostato, perché sta diventando una cifra anche del nostro tempo, e non solo del tempo di Gesù. Una parola che ritorna spesso nelle parole di papa Francesco, una parola che suona come la vera accusa della parabola.

La parola "indifferenza". Nella "Evangelii gaudium" Papa Francesco scrive: "Gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell'indifferenza.

Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite, stroncate per mancanza di possibilità, ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo".

L'indifferenza. Dio ce ne liberi. E' la devastazione di ogni immagine di umanità.

 

 


 
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