interventi


Angelo Casati , il 6/1/2001, in pubblico



Storia della torre: un Dio oltre i confini

Il testo biblico della Torre di Babele, se esplorato nel territorio che lo precede e nel territorio che lo segue, può riservare qualche sorpresa.
È come se fosse assediato da nomi, prima e dopo.
Il capitolo 10, che lo precede, presenta ai nostri occhi una tavola di popoli, una vera e propria "carta" dell'umanità allora conosciuta.
Dai tre figli di Noè, di generazione in generazione… Storia dell'occupazione della terra, da parte dei differenti popoli che risalgono ai tre grandi ceppi: camiti, semiti, giapeti.
Così, anche dopo il racconto della Torre di Babele, ecco un'altra genealogia e ancora generazioni, ancora nomi, nomi e nomi fino ad Abramo.

A prima vista sono pagine aride, i nomi sono anche difficili da pronunciare.
Vi confesso che anch'io pativo una certa fatica, per esempio, quando la vigilia di Natale mi toccava leggere della nascita di Gesù dopo una lunga teoria di nomi, nomi e nomi.
Invecchiando ho cominciato a sentirmi affascinato, affascinato dai molti nomi, dagli impronunciabili nomi.
Ho sognato che a raccontare la genealogia fosse un antico di giorni, uno degli anziani della memoria accanto al fuoco, in una notte di veglia, quando più non sai se negli occhi dei bambini in ascolto il riverbero è quello delle fiamme o se ad accenderli è la magia dei nomi impossibili.
Vorrei aggiungere che questo succedersi di nomi, di generazioni, di terre, mi affascina per due motivi:
primo perché, a volte, tento di immaginare che cosa c'è dietro un nome, dietro una terra: le storie, storie da raccontare, le infinite storie da raccontare;
in secondo luogo, mi affascinano le genealogie, perché mi sembra di capire che in questo generare, in questo succedersi di generazioni, in questo ramificarsi dei popoli sulla terra, sia scritta quasi l'obbedienza -lo si sappia o no- a un disegno, quello di Dio: "Fruttificate, moltiplicatevi, riempite la terra" (Gen 1, 28).
E quel disegno era a sua volta, dentro una benedizione. "Dio li benedisse, e disse loro Dio: "Fruttificate, moltiplicatevi, riempite la terra"".

È affascinante dunque pensare che questa varietà dei popoli è nel segno della benedizione di Dio.
Questa differenza è una differenza benedetta. Questa varietà è una varietà benedetta. Questa molteplicità è una molteplicità benedetta.

La dispersione dei popoli che si stanziano sulla terra non è qualcosa di negativo, è opera della benedizione di Dio.

Ed è come se da questa mappa dei popoli, noi, come per una fessura, già intravedessimo il messaggio del capitolo 11.
Non è la dispersione che va giudicata negativamente. Giudicato negativamente da Dio è piuttosto il tentativo opposto, quello di imporre un'unità, non voluta da lui, come dominio.

E così ci affacciamo al nostro racconto, che esplora, mette a tema, l'orizzonte del rapporto tra i popoli, tra le culture.
Il libro della Genesi esplora temi capitali: il rapporto uomo-donna, il rapporto con la terra e il rapporto con Dio, con il male, con il lavoro…, e ora sembra esplorare, in questo capitolo, l'orizzonte dei rapporti tra popoli e popoli, l'orizzonte delle culture.
Il panorama, diremmo, internazionale, anche se il racconto getta luci, a mio avviso, anche su un panorama meno lontano, ma non per questo meno importante, che è quello personale.

Il nostro testo inizia: "Ora tutta la terra aveva una stessa lingua e le stesse parole".

Era una condizione positiva -stessa lingua e stesse parole-? O era una condizione degenerata, negativa?
Anche all'interno dell'esegesi rabbinica ci sono le due interpretazioni.

Una prima interpretazione tende a dire: "Una stessa lingua", cioè la lingua con cui il mondo fu creato da principio, la lingua "santa".

Ma c'è una interpretazione anche divergente, che va a segnalare la negatività dell'avere "le stesse parole".
"Gli uomini" -commentano i rabbini- "erano animati da uno stesso disegno. Essi dicevano: Dio non ha alcun diritto di riservare per sé le regioni celesti. Saliamo dunque al firmamento e facciamogli guerra".

Avere le stesse parole, condizione negativa, secondo un altro commento rabbinico, perché le stesse parole significa "parole contrarie a colui che è l'unico nel mondo".
Dunque un disegno contrario a quello di Dio.

"In realtà" - osserva Enzo Bianchi - "se c'è una parola unica, questa è la parola del più forte, del più potente, di colui che detiene il potere" (E. Bianchi, Adamo dove sei?, Qiqajon, 1994, p. 287).
È lui che si fa sentire!

Forse non è un caso che già nella genealogia che precede il nostro racconto, proprio in mezzo a quel dilagare di nomi è narrata la storia di Nimrod, leggendario fondatore di un regno nella regione mesopomica, una storia raccontata con parole che creano un sussulto, come se la patologia venisse da lontano:
"Kusch generò Nimrod; questi cominciò ad essere un potente sulla terra. Egli era potente nella caccia di fronte al Signore.
Perciò si dice : 'Come Nimrod, potente nella caccia di fronte al Signore'.
Principio del suo regno fu Babel, Erek, Akkad e Kalneh nella terra di Shin'ar".

È significativo: "principio del suo regno fu Babel".
È un altro principio non quello del giardino.
Ci si è staccati dall'oriente, dall' "in principio" del giardino, l' "in principio" di Dio.

Prosegue il racconto:
"Ed avvenne che, emigrando dall'oriente, gli uomini trovarono una pianura nel territorio di Shin'ar".

"Emigrando dall'oriente".
È sempre carica di fascino questa parola senza aggettivo: l'oriente. L'oriente dice Dio. Anche il Messia verrà "dall'oriente".
Non per nulla, quando la terra ancora non era cementificata, si potevano ancora costruire le chiese rivolte ad oriente, nell'attesa del ritorno del Signore.
L'espressione "emigrando dall'oriente" potrebbe evocare un grande "disorientamento". Un disorientamento quando sembrava che ci fosse finalmente un progetto comune.
Ma la parola "oriente" ci risuona dentro con la suggestione e l'emozione anche dell'illimitato: i Magi? Dall'oriente. Non è detto da dove. L'oriente può essere ogni dove.
E qui invece si va a concentrarsi nell'unica pianura: una pianura che ci contenga tutti, come in un imbuto. Un recinto che soffoca la sete dell'illimitato.

E mi sveglierò
su strade grigie
e griderò inascoltato
l'assenza.
Orfano
della magia del deserto
delle sabbie rosate
delle rocce
ubriache di colore.
E sognerò
folate di vento
di libertà
e sabbia nei capelli,
spazi senza recinti
e l'eco dopo millenni
di messaggi segreti
incisi da beduini
su rocce d basalto
a segnalare
ai nomadi del futuro
piste segrete
d'indipendenza
nell'infuocato deserto.

È scritto ancora: "Vi si stabilirono". Quasi perdessero l'animo dei nomadi.
"E si dissero l'un l'altro: 'Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al forno'. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento".

Il testo non va certo nella direzione di censurare il progresso, la tecnica. Tecnica, progresso a servizio del giardino o contro il giardino?

Perdonate la digressione, ma io mi ritrovo a lottare -lottatore perdente- per il giardino.
A Lecco, a lottare per le pendici di Montalbano, un grappolo di case, su un pianoro. Hanno costruito casermoni. Hanno cementificato la città.
Ora mi ritrovo con una piccola piazza a Milano davanti a una chiesa senza sagrato: bisogna sacrificare un fazzoletto di terra, gli alberi. Vince l'automobile, cementifichiamo anche il sottosuolo.

Il progresso, la tecnica… per la libertà?

Mi è successo di paragonare questa scena degli uomini accaldati nella fornace a cuocere mattoni per la torre della potenza a un'altra scena evocata dall'immaginazione forte di Erri De Luca, che in un suo scritto sul giubileo parla del Sinai come di una fornace.
Erri De Luca fa notare che il testo biblico recita così: "Dopo aver parlato con Mosè "in monte Sinai", Dio diede le due tavole".
"In monte", come a dire: dentro una cava, dentro una fornace.
"Quel monte" -scrive Erri De Luca- "diventa un'enorme fornace, kivshàn, quella in cui si cuociono i mattoni e che raggiunge gradi che arroventano la terra.
Dio e Mosè stanno in quella fornace, dentro la colonna di fumo e fabbricano i mattoni, levenìm, non più quelli da schiavi in Egitto per l'edilizia faraonica, ma quelli di libertà da consegnare all'intera specie dell'Adàm.
Il Sinai è stata la più solenne cava di pietre nella storia dell'umanità. Due sole tavole di quella materia bastarono a fondare alleanza-libertà tra creatore e specie umana" (Erri De Luca, L'urgenza della libertà, pp. 12-13).

A confronto: i mattoni della potenza nella pianura di Shin'ar e i mattoni di libertà che vengono dalla fornace del Sinai! Mattoni questi ultimi, cotti non sospettando un Dio antagonista, ma cotti dall'uomo e da Dio insieme.

Ci chiedevamo: il progresso, la tecnica, a servizio di quale progetto?

Quale fosse il progetto risulta con chiarezza dalle parole che invitano alla costruzione della torre:
"Poi dissero: venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima sia nei cieli e facciamoci un nome, affinché non ci disperdiamo sulla faccia della terra".

La città che qui si vuol costruire è una città immagine della grandezza: "la cui cima tocchi il cielo".
È come il tentativo di scavalcare i limiti umani. "Non è l'aspirazione alla grandezza come tale" -scrive Westermann- "o la creazione delle grandi opere, che viene biasimata in questo racconto, piuttosto viene indicato il pericolo dello scavalcamento dei limiti, che minaccia l'uomo nel suo essere uomo" (K. Westermann, Genesi, Piemme 1989, p. 93).
Un progetto di "svuotamento del cielo", che ritorna nei Profeti, come progetto condannato da Dio:
"Eppure tu pensavi
salirò in cielo
sulle stelle di Dio
innalzerò il mio trono.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi
mi farò uguale all'altissimo" (Is. 14, 13-14)

Voler essere grandi, farsi un nome, svuotare il cielo, è l'anima del progetto.
La logica che soggiace è la logica dell'onnipotenza, è la pretesa dell'immortalità.
La logica non è "custodire il giardino", il giardino dell'umanità, ma farsi un nome, avere successo, dominare sugli altri.
La torre del controllo: tutto sotto controllo!
Sembra di leggere qui l'origine di ogni razzismo, di ogni totalitarismo, di ogni soffocamento della diversità.

"Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che stavano costruendo gli uomini".

E i rabbini, a commento di Dio che scende, scrivono:
"Dio non aveva bisogno di scendere a vedere. La scrittura però ha voluto in tal modo insegnare ai giudici che essi non devono dichiarare colpevole l'imputato, prima di avere esaminato e considerato il caso di persona".

Prosegue il racconto:
Il Signore disse: ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro".

È come se Dio smascherasse la parola "unità".
Un solo popolo, una sola lingua, un'unità che soffoca le diversità, un'unità che uccide l'immaginazione -il modello è unico, va globalizzato! - un'unità che è la propria lingua imposta a tutti: la lingua della propria religione, della propria cultura, della propria razza, le settanta lingue della genealogia impoverite in un'unica lingua.
E si dice: abbiamo fatto l'unità. Come quando in una casa parla uno solo. Dio smaschera questa unità, l'unità dell'unica lingua.
Nella Bibbia, nel Secondo Testamento, c'è un episodio che tutti gli esegeti mettono a confronto con quello della Torre di Babele, l'episodio della Pentecoste. Lo Spirito scende sotto lingue di fuoco e nasce la comprensione delle lingue. La confusione delle lingue a Babele, la comprensione delle lingue a Pentecoste.
Che non è -come a volte si cerca di farlo passare- l'accadere di una lingua sola, una sorta di esperanto, che ci faccia intendere gli uni gli altri.
La gente era stupita non perché ci fosse una lingua sola, ma perché udivano gli apostoli parlare ciascuno nella propria lingua nativa. "E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?" (Atti 2, 8).

L'ideale non è dunque un unico centro di potere religioso, politico, sociale, culturale, ma stare dentro la lingua mobile degli altri.

La dispersione!
Dio non vuole essere rinchiuso in una sola lingua, potremmo dire anche in una religione, se una religione tende a imprigionare Dio.
Si può celebrare la Pentecoste e ritornare purtroppo al progetto dell'unica lingua.

Così scrive Erri De Luca:

Così il cristianesimo riprenderà l'opera di ricondurre l'umanità dispersa in Babele verso un'unica altura, a un solo altare. È impresa forse non gradita al dio che presso la torre disperse il più grande tentativo ecumenico tentato dagli uomini.
Forse Dio apprezza di più i molti nomi con cui i popoli lo hanno rivestito nelle varie lingue. La gutturale, comune agli anglosassoni, la dentale dei mediterranei, la levissima iod degli Ebrei sono le iniziali di un'inesauribile pronuncia del suo nome. Dai trentasei angoli del mondo i bisbigli delle persone declinano innumerevoli volte i titoli astrusi e soavi del Creatore. Sparse in terra in litanie e sussurri, è bello credere che le note compongano in cielo un solo nome, i canti un solo accordo.
Per essere chiamato con molti nomi Dio disfece la torre, la grandezza posticcia di uomini ridotti a maestranze. Scelse di essere nominato in mille lingue perché non si esaurisse la ricerca. È ancora lì, alla superficie del caos.
C'era una torre in Scin'ar, fu smembrata in Babele. Quando si dice "torre di Babele", si confonde un edificio col nome del suo crollo, una nave con la tempesta che l'affonda.
Gli uomini coltivano con ostinazione residua il sogno di un'unica fabbrica che arrivi all'origine dell'infinita varietà. Dio demolì a Scin'ar la pretesa di agguantare per virtù di tecnica, di ingegneria, l'universo. Non ne siamo rimasti persuasi. La dispersione lì avvenuta delle lingue e delle fedi da parte di Dio costituisce prova di una provvidenza che non è stata ancora apprezzata (E. De Luca, Una nuvola come tappeto, Feltrinelli 1994, pp.18-19).


È bello pensare che il cap. 11 ha nelle sue ultime battute il nome di Abramo che è il contrario dell'operazione di Babele.
Non vuole svuotare il cielo: obbedisce alla voce.
Non vuole crearsi una città potente: esce dalla sua terra.
Non vuole farsi un nome grande: accetta il nome da Dio e Dio, non lui, farà grande il suo nome.
Una grandezza che non è prodotto delle proprie mani, della propria voglia di affermazione, una grandezza che viene da Dio:
"Farò di te un grande popolo
e ti benedirò
renderò grande il tuo nome
e diventerai una benedizione.
In te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra" (Gen. 12, 2-3).

È la contestazione del mito della scalata, essere sopra gli altri, se possibile sopra Dio
E infatti, quando un uomo, una donna, un popolo diventa benedizione?
Quando costruisce la torre, o quando discende?
Al mito della scalata del cielo la Bibbia risponde con un Dio che scende e cammina: "sono stato con te dovunque sei andato" (2 Sam. 7,9). Risponde con la storia di Gesù, il Figlio di Dio, sceso nella carne dell'uomo.
Davvero una benedizione.

don Angelo Casati

 

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