interventi


Angelo Casati , il 14/6/2008, S. Giovanni in Laterano, Milano



"Storia di una piccola cattedra"

Mi sono chiesto che senso dare a questo incontro. Dentro la mia vita. Perché la “cattedra” l’abbiamo tutti vissuta, non come una dissertazione vana, ma come un vento, forse lieve, che però muoveva la vita, muoveva pensieri, muoveva sogni, muoveva la luce e muoveva anche la fatica della luce, così direbbe un’amica, Gabriella Caramore, così ha intitolato il suo libro: “La fatica della luce”, o se volete la fatica di “venire alla luce”.

Mi sono detto che il senso poteva essere non quello del bilancio di un’esperienza, perché, voi mi conoscete, conoscete la mia misura, e sapete che non ne sono capace, non mi ritrovo nelle sintesi. Forse più nei racconti. Il senso allora che intravedo è quello di una breve, sosta breve a osservare. Poi c’è la vita, che chiama. Sosta breve, non ci si può attardare. Sosta in parete, prima di affrontare un altro strappo.

Ricordo come nacque questa esperienza. Il nome, come voi sapete, allude. Allude all’esperienza di una cattedra ben più prestigiosa, quella del cardinale Martini. Ci eravamo ritrovati, un gruppo di amici, alle prime sessioni della sua Cattedra, ne avevamo subito il fascino, ricordo la sala di via S. Antonio 5. Il fascino era, devo dirlo, non solo per le cose dette, ci sono altre cattedre prestigiose dove vengono dette cose alte, ma per l’intuizione che percorreva quella del cardinale, intuizione allusa nella stranezza del titolo, con quella aggiunta, alla voce “cattedra”, quella specificazione “dei non credenti”. Nel panorama ecclesiastico di quel tempo, e non solo di quel tempo, anche del nostro tempo, dove per lo più la cattedra nei nostri ambienti è riservata a gerarchie o a ecclesiastici o a laici devoti, quelli che non fanno domande, ma fanno genuflessioni, suonava stranezza che a salire in cattedra fossero i non credenti o i diversamente credenti. E che bastasse essere uomini e donne, uomini e donne pensanti, per avere ospitalità ad una cattedra. E non dei sorvegliati speciali.

Intuizione bellissima. Che però ancora oggi mi pone una domanda: come possiamo essere arrivati a pensare che solo alcuni abbiano qualcosa da dire, da raccontare e che lo Spirito parli solo nelle case dei credenti, solo dalle loro labbra o, peggio ancora, solo nelle chiese e nelle sagrestie. Eppure qualcuno ancora lo pensa, pensa che la verità è da una parte sola e che i cattolici non hanno niente da imparare da nessuno. E che in cattedra vanno di diritto le gerarchie. Una verità, una falsa verità, smentita dalla vita, insopportabile per chiunque di noi custodisce l’avventura di frequentare ancora senza pregiudizi la vita, frequentare case, donne e uomini del nostro tempo e di incontrarli al di là del pregiudizio del diverso.

La convinzione che in cattedra dovessero andare solo le gerarchie ci sembrava cozzare contro pagine e pagine della Bibbia. Anche fortemente e impietosamente polemiche, una polemica a cui Gesù non si era sottratto: “Sulla cattedra” anche lui parlava di cattedra “sono saliti scribi e farisei...”.

La cattedra del cardinale, voi capite, incrociava questi nostri pensieri. Ci si ritrovava nella sala di via S. Antonio, ma poi si sentiva il bisogno di riprendere insieme le riflessioni. Ci si ritrovò così in gruppo nella casa di un nostro amico. La rivedo nella memoria. Ma poi ci dicemmo che l’esperienza andava condivisa, e che forse potevamo pensare a una piccola cattedra nella parrocchia. Nella parrocchia, ma non risucchiata da clericalismi e da appartenenze, avremmo tradito il nome. Nello stile dell’accoglienza senza discriminazioni e del non imprigionamento, uno stile che andava prendendo i nostri sogni e che era alluso in quel titolo del notiziario parrocchiale “Come albero”. Nella forma dunque più aperta, la porta non è ingombra, non assediata da "vischiosità clericali". Puoi entrare e nessuno ti chiede tessere di appartenenza, che già scoraggerebbero il tuo affacciarti. Puoi entrare se la forma del riunirsi è lontana da ogni arroganza dello spirito, ti senti accolto nella tua sete. Sarà sete di Dio, del vangelo o di una umanità o di una terra più vera? Accolti forse nella sete alla quale ancora non sappiamo dare un nome.

Nel vangelo è scritto di Gesù che "accogliendo le folle" parlava loro del regno di Dio. E quell’ “accogliendo” non era per noi un inciso, irrilevante. In quel gesto non era già un baluginare del regno di Dio, quasi una precedenza del gesto sulla parola? Non so se sempre ci siamo riusciti, ma vi confesso, era nel desiderio che, entrando in questa sala, chiunque si sentisse atteso e accolto. Desiderio di una cattedra che ponesse il suo fascino e la sua bellezza nell’accoglienza. Ricorderò come in una delle nostre cattedre, forse sedici anni fa, venne per la prima volta tra noi, Moni Ovadia. Entrò in questa sala, si guardò attorno e, prima ancora di iniziare a parlare, mi disse: “Ho capito, don Angelo, chi siete”. Lo guardai con aria stupita. Gli chiesi da che cosa l’avesse capito. Mi disse: “dalla disposizione delle sedie”. Dalla disposizione, capite, a cerchio delle sedie. Vi confesso che quella sera mi rallegrai. Vi confesso anche un peccato di orgoglio. Mi dissi che forse non era stato sbagliato del tutto cambiare l’ordine delle sedie nella sala al primo piano. L’avevo trovata con le sedie allineate, come in un antica aula scolastica e il tavolo di presidenza stava sopra una predella. Cambiammo la disposizione delle sedie, eliminammo la predella.

Cominciò l’avventura della nostra piccola cattedra. Un nome ne chiamava un altro. Forse vi siete accorti: per la nostra incapacità a programmazioni alte, per la mia incapacità, la nostra piccola cattedra un poco, o forse tanto, si differenziava da quella del Cardinale. Era meno un ciclo compiuto. Era più rapsodica.

Ci radunavamo a pensarla: la vita ci faceva incrociare domande. Se stai nel chiuso delle sacrestie e delle burocrazie, non accade nulla o quasi nulla. La cattedra voleva stare sulle strade della vita, là dove camminiamo insieme e insieme ci interroghiamo. Da pensanti, direbbe Martini. Perché “la vera distinzione” diceva “non è tanto tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti”. E per “grazia”, lasciatemi usare questa parola che dice lo stupore di ciò che accade, per “grazia” accanto alle domande apparivano nomi, a volte erano solo nomi e non ancora volti, o forse meglio erano volti, se volto significa più della pelle di un viso.

Abbiamo incrociato donne e uomini che avevano dentro le domande della vita. Sono diventati compagni di viaggio. Questa sera mi sarebbe piaciuto elencarne il nome, a uno a uno, uno stuolo, elencare i nomi, con amore, uno a uno. Quasi cento, o anche di più. In questa sala li abbiamo ascoltati, li abbiamo interrogati. Non sono stati dei conferenzieri anche se ne avevano tutta la lucentezza. Abbiamo avuto l’arditezza di chiedere loro qualcosa di più: di raccontarci la loro ricerca. Ci hanno dato questo di più. Che io penso appartenga all’amicizia. Sono stati per noi compagni di viaggio. Il mistero nel cuore dell’altro impone rispetto, chiede silenzio e empatia, chiede di sostare senza invasioni, sulla soglia, evoca l’apertura del cuore, quella di Gesù, che aveva fama -purtroppo noi l’abbiamo perduta- di essere amico dei “distanti”, accusato perché “amico” dei distanti. “Amico” -non so se l’avete notato- c’è una precedenza sulla distanza, la precedenza dell’amicizia. Perché è nell’amicizia che avviene lo svelamento, l’affacciarsi dell’uno all’altro. Molti di noi, forse hanno colto, questa dimensione della nostra piccola cattedra. In questo forse ci sembra, anche perché piccola, un po’ diversa da quella del cardinale. Chiedevamo, a chi veniva tra noi, di riflettere con noi, ma anche di raccontarsi. E si formavano fili, si intessevano fili. Tant’è che spesso ci sentivamo dire: “ma come fate, come fate ad avere l’uno e poi ad avere l’altro?”. Non lo sappiamo. Era il miracolo della rete.

E cadevano pregiudizi. Che solo la distanza poteva avallare. I volti dei non credenti o dei diversamente credenti non erano per lo più quelli altezzosi e cinici che tanta letteratura e tanta predicazione cattolica ha contrabbandato.

In una sua riflessione su una rivista uscita anni fa su la “Rivista del clero” Massimo Marcocchi scriveva: “C’è il laicismo becero, c’è il laicismo pensoso di uno scrittore e di un filosofo che ammiro molto: Claudio Magris e Norberto Bobbio. Chi sono i laici? Sono i non credenti? Forse questa definizione è spicciativa. Il laico è l’uomo del dubbio, è l’uomo della tolleranza, è l’uomo di una verità che si va continuamente facendo, che non è radicata in visioni generali del mondo, che è sostanzialmente antidogmatica” (La rivista del clero italiano, 6/2001, pag. 441).

Ci accomuna, credenti e non credenti e diversamente credenti, il dono di pensare e di interrogarci a partire dalle nostre provvisorie limitate conquiste. Ci appartiene la condizione di essere tutti, credenti e non credenti e diversamente credenti, della razza dei nomadi, fuori dalle secche degli immobilismi:

Incontenibile andare
di monte in monte
inquieti dietro un mistero
che sempre ti seduce
da un’altra valle.

Perché relativismo vero è rendere Dio e il suo mistero relativo, imprigionandolo nel relativo dei nostri pensieri e delle nostre formulazioni.

Insensato e miope dunque il tentativo di ridurre Cristo a un luogo o a una religione.

Non è forse scritto del Verbo di Dio nel prologo di Giovanni che “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste”?. “Niente senza di lui”: come a dire -mi si perdoni la parola- che è “impastato” in ogni cosa, è finito in ogni cosa: il canale ha portato acqua dappertutto.

E quindi, voi mi capite, dovremmo essere, poco o tanto, uomini e donne delle miniere, della razza degli scopritori, uomini e donne delle miniere, che sanno scavare e scovare.

Fuori dalle ingenuità del passato, quando ti volevano far credere che l’oro fosse solo nella tua miniera. Giovanni dice che tutto il mondo è una miniera. Va a scavare. Va a scovare. Va a far brillare l’oro. Portalo alla luce.

Ricordo che Eugenio Scalfari, ex-direttore di “Repubblica”, neoilluminista, a conclusione di un suo editoriale anni fa scriveva: “Molto si giocherà sulla cultura. Vorrei anche dire che tutto si giocherà sulla cultura. Ricordatelo, voi che pensate che il denaro e la sua conquista, il potere e la sua conquista, la felicità materiale e la sua conquista siano tutto. Denaro, potere, felicità materiale non si conquistano senza cultura ma soprattutto non sono tutto: ci sono spazi di fantasia, realizzazione di sé e donazione di sé che stanno oltre la linea del semplice benessere. Questo fa la differenza”.

Leggendo queste parole mi sono sentito interpretato. Come credente, mi sono sentito attraversare da un’emozione al pensiero che un laico, non credente, citasse, forse senza saperlo, le tre tentazioni di Gesù nel deserto e ce ne mettesse in guardia, ora che non sempre le voci ecclesiastiche dall’alto ce ne mettono in guardia.

Altre volte è il non credente a portare alla luce la “parte di non credente” -così la chiama il Card. Martini- che dimora dentro di noi, là dove fede e non fede convivono.

E, dunque, benedetto, benedetto il non credente, che ricorda a noi credenti la preghiera del padre dell’ossesso del vangelo: “Credo, Signore, ma tu vieni in aiuto alla mia incredulità”.

E benedetti tutti noi, se, con la cattedra, ma non solo con la cattedra, più che certezze-prigione, avremo accolto e seminato domande, se, dietro quelle domande, saremo andati a esplorare orizzonti.

La fede, purtroppo, nell’immaginario del passato -forse anche del presente?- spesso viene presuntuosamente evocata come una risposta a tutto.

Poi nacque la domanda: dov’è? dov’è Dio nell’orrore, nell’inferno della Shoah? La domanda del secolo che ci siamo lasciati alle spalle, la domanda che, con tante altre drammatiche, ci fa curve le spalle.

È nata la domanda. O forse la domanda è da sempre nel silenzio più segreto del cuore. Domanda rimossa, o perché soffocata dal frastuono del nulla o perché censurata dagli imbonitori delle coscienze, quelli che vendono a buon mercato le risposte e non hanno esitazioni. Loro sanno tutto!

Il biblista don Bruno Maggioni, in un suo editoriale illuminante, ricordando la problematicità e l’apertura di molte pagine della Bibbia, così scriveva:

“Colpisce il fatto che all’interno della Bibbia la domanda dell’uomo non scompare, come se venisse annullata dalla rivelazione. Bensì riemerge doppiamente. L’esperienza del dolore innocente, dell’ingiustizia trionfante, della delusione, pare contraddire la bontà e la fedeltà di Dio e questo spinge l’uomo biblico -pur credente- a chiedersi se veramente Dio è fedele, se davvero la sua promessa è solida. L’uomo biblico si imbatte continuamente nel mistero di Dio. E così la sua domanda si fa doppia. Non soltanto chi è l’uomo, ma anche chi è Dio. Per alcuni il fatto che nella Bibbia la domanda si riproponga costituisce una delusione. Personalmente ne provo entusiasmo. È un segno che la Bibbia è un libro sincero, non un libro edificante nel quale i conti tornano sempre. Far tornare i conti è desiderio dell’uomo, non il vero modo di manifestarsi di Dio”.

Credenti e non credenti, compagni nella domanda, dunque, è così vorrei porre fine alla mia riflessione, compagni nella domanda, nella domanda che apre.

Proprio alcuni giorni fa Paolo De Benedetti, vi ricordate, ci raccontava che in Babilonia, all’epoca del Talmud, nel V secolo della nostra era, c’erano due maestri, uno stimava moltissimo l’altro, lo stimava molto, ma allora per consultarsi non c’erano né telefono né computer, non c’era niente. Fate conto, diceva, che uno stesse a Mossul e l’altro stesse che so a Bagdad, allora gli mandò trenta cammelli carichi di domande. L’episodio finisce qui, non sappiamo quanti cammelli sono tornati con le risposte, non sappiamo niente, ma è significativa la storia, e quindi bisogna fare domande. Anche, se aggiungeva, abbiamo un posto che si raggiunge col treno, cioè Roma, anzi al di là del Tevere, dove ci sono cammelli carichi di risposte

“Nelle questioni di Dio” scrive Gabriella Caramore “come in quelle degli esseri umani, occorre provare a dire tutta la verità di cui si è capaci, sapendo nello stesso tempo che ogni nostra verità sarà sempre parziale, instabile e che non saremo noi a giudicare la nostra verità. E che un buon antidoto contro l’idolatria (anche quella dei nostri stessi pensieri) alla quale tutti, in diversa maniera soggiaciamo, è lasciare , talvolta, che le nostre domande rimangano senza risposta, che resti scoperta la nervatura delle nostre inquietudini, delle nostre oscillazioni e incertezze, invece che cercare di far quadrare le operazioni a tutti i costi, come in una o contabilità fittizia e di frode”(La fatica della luce, pag. 9)

Nelle prime pagine di un suo piccolo libro “Perché no?”, Moni Ovadia, uomo di teatro, saltimbanco, come ama definirsi, “ebreo corrosivo”, ricorda che seconda la gemahtria cabbalistica ebraica, la parola Adam, essere umano, corrisponde numericamente alla particella interrogativa “che cosa?”.

“Da questa identità numerica” -scrive Moni Ovadia- “i nostri maestri deducono che essere umano è colui che sa porre domande. Non chi dà risposte, ma chi sa porre domande. Perché chi pone domande apre alla produzione di senso, apre al futuro, dà alle generazioni avvenire la possibilità di intervenire, di esistere. Perché la domanda è quella che apre la questione, sollecita una risposta anche su questioni già apparentemente chiuse: si trova sempre una nuova domanda” (Perché no?, Bompiani, 1996, pag. 10).

“La domanda” -fa eco Martin Cunz- “ci costringe a guardare negli abissi di noi stessi, delle persone con cui abbiamo a che fare, negli abissi della nostra epoca, ma anche negli abissi di Dio”.

Per questo dopo aver ringraziato non senza commozione questa sera i nostri amici che ci hanno fatto dono del loro racconto, ringrazio questa sera tutti voi, donne e uomini delle domande, che ci avete in questi anni sorpreso per il vostro interesse, la vostra partecipazione, la vostra amicizia. Spesso nel gruppo degli amici che pensavano questa piccola cattedra, ci chiedevamo: “Non sarà ora di chiuderla dopo tanti anni?”. Ma la domanda non chiude e non si chiude. Voi ci avete fatto continuare, la vostra domanda ci ha fatto continuare. Siamo arrivati a questo passaggio in parete. Per ripartire.

don Angelo

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