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                     GRATUITÁ 
                      E GRATITUDINE 
                     Vorrei 
                      iniziare questa mia riflessione su gratuità e gratitudine 
                      dicendovi una mia impressione, l'impressione che gratuità 
                      e gratitudine siano sempre più dimensioni in esilio, 
                      forse esagero, dalla vita.
                     Qualcuno 
                      giustamente potrebbe obiettare, facendo presente come persista 
                      e sia in crescita il rito dei regali. Ma siamo così 
                      poi sicuri che il rito faticoso dei regali sia nel segno 
                      della gratuità? Ho parlato di una fatica da regalo 
                      e penso per esempio a una telefonata di un'amica prima della 
                      scorsa estate. L'amica mi parla di cose che sembrano piccole, 
                      ma dicono un costume. Siamo alla fine dell'anno scolastico, 
                      i bambini stanno terminando le scuole, hanno fine i loro 
                      mille impegni. Ed ecco il rito, a volte estenuante, dei 
                      regali. Ci si deve occupare del regalo all'insegnante, del 
                      regalo alla catechista, del regalo alla rappresentante di 
                      classe. E che ci sia una proporzione nei regali.  
                    Ma 
                      il "rito" forse, senza forse, non è solo 
                      nei giorni di fine anno. Basterebbe pensare agli inviti 
                      alle feste dei bambini, feste di compleanni o di quant'altro: 
                      sei stato invitato, devi invitare. Hai dato ospitalità 
                      a dei compagni di classe dei tuoi bimbi, l'ospitalità 
                      va restituita. Tutto deve corrispondere, come se tutto dovesse 
                      collocarsi in un incastro: a tanto, tanto. E' lo scambio. 
                      Domina lo scambio. 
                    È 
                      come se stessimo assistendo - e non senza rischio di contagio, 
                      lo dobbiamo riconoscere - a un processo, sempre più 
                      invadente e devastante, di mercificazione. Tutto è 
                      mercato, sembra la stagione del mercato, il grande mercato. 
                      Stagione di imbonitori che urlano per indurti a comprare. 
                      In tutti i campi.  
                    Si 
                      compra tutto. Con i soldi - si dice o si fa capire - si 
                      può comprare tutto. Anche i sentimenti, le persone, 
                      il pensiero, il futuro, l'anima della gente. Domina la legge 
                      del mercato: io ti do, tu mi dai. Nella più pura 
                      proporzionalità. A prestazione deve corrispondere 
                      prestazione, abbiamo pareggiato i conti, siamo alla pari. 
                      A prestazione corrisponde il giusto prezzo. 
                       
                      Si riducono gli spazi della gratuità. Si cancella 
                      il "disordine" della gratuità, che racconta 
                      una sproporzione, annuncia una dismisura.  
                    A 
                      tal punto si riducono gli spazi della gratuità che, 
                      quando, per avventura o per grazia, ti sembra, stropicciandoti 
                      gli occhi, di sorprendere un gesto gratuito, subito qualcuno 
                      va a smorzare il tuo entusiasmo, insinuandoti il dubbio: 
                      "no" ti dice "non è possibile, ci 
                      sarà un secondo fine, un interesse nascosto". 
                      Tanto il "gratuito" sembra fuori paese, fuori 
                      del nostro paese. Consumati, pesantemente consumati, dall'opinione 
                      che tutto si paga, siamo arrivati al paradosso che, se qualcosa 
                      viene offerto gratuitamente, non ha valore. O ne ha ben 
                      poco nella stima generale.  
                    È 
                      come se dominasse il denaro: se hai denaro sei qualcuno. 
                      Senza denaro non sei nessuno, senza denaro non puoi fare 
                      niente. Tant'è che sembra invito da far stralunare 
                      gli occhi quello che ci viene dalle pagine della Bibbia, 
                      dal libro di un anonimo e lontano discepolo di Isaia. "O 
                      voi tutti assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga 
                      ugualmente, comprate e mangiate, senza denaro e senza spesa, 
                      vino e latte" (Is 55,1). 
                    Finalmente 
                      qualcosa, per cui non si è avvantaggiati se si hanno 
                      soldi e svantaggiati se non si hanno. Quasi, lasciatemi 
                      dire, una contestazione radicale all'opinione comune, secondo 
                      la quale "con i soldi si ha tutto e senza soldi non 
                      si ha niente". Qui i soldi non contano, non contano 
                      proprio niente, perché l'invito è a qualcosa 
                      di gratuito.  
                    Eppure 
                      sussulti verso la gratuità erano custoditi - lo dobbiamo 
                      confessare - nel tesoro della fede. Dico "erano custoditi", 
                      perché a volte mi sembra di assistere alla seduzione 
                      del mercato all'interno stesso del mondo ecclesiastico, 
                      dove il Dio predicato sembra troppo spesso il Dio che va 
                      soddisfatto con le prestazioni, comprato con le indulgenze, 
                      con la pretesa di pareggiare i conti. Perdendo, a mio avviso, 
                      posso sbagliarmi, il cuore dell'annuncio della nostra fede. 
                      Questo sì, annuncio da fare stropicciare gli occhi: 
                      un Dio che ti ama comunque. Gratuitamente. Non in misura 
                      delle prestazioni.  
                    Molti 
                      di noi ricordano come in un delizioso racconto, che ci è 
                      stato tramandato, si parli di crociati che, nelle loro peregrinazioni, 
                      un giorno si imbatterono in una donna, una mistica, che 
                      se ne andava senza mai fermarsi, portando in un secchio 
                      dell'acqua e nell'altro del fuoco. A chi le domandava perché 
                      se ne andasse senza soste, portando acqua e fuoco, rispondeva 
                      che portava acqua per spegnere le fiamme dell'inferno e 
                      fuoco per bruciare il paradiso, perché, diceva, nessuno 
                      più facesse il bene per meritarsi il paradiso o per 
                      il timore dell'inferno, ma gratuitamente, solo per la gioia 
                      di farlo. 
                    Lo 
                      scandalo del vangelo è questo, è questa gratuità. 
                      Lo scandalo per cui Gesù fu violentemente criticato. 
                      Criticato per quel suo stare a mensa con pubblicani e peccatori. 
                      A scandalizzarsi erano i benpensanti della religione. Il 
                      loro mugugno era verso quello stile di accoglienza indiscriminata. 
                      Che Gesù difendeva con tutte le sue forze, perché 
                      ne andava dell'immagine di Dio, che lui con la sua vita 
                      andava raccontando. Non raccontava un Dio che, se sei giusto 
                      ti ama, ma se sei peccatore ti fulmina: questa era la visione 
                      meschina dei suoi oppositori, che non si sarebbero certo 
                      scandalizzati per una cena con peccatori, purché 
                      fossero convertiti! Con quelli ancora non convertiti, come 
                      faceva Gesù, no. E Lui invece a raccontare un Dio 
                      che non è stretto nel criterio del calcolo, "io 
                      ti do, tu mi dai". A raccontare un padre che il suo 
                      sole lo fa sorgere sui buoni come sui malvagi e, così, 
                      la sua pioggia la dona al campo dei giusti e a quello degli 
                      ingiusti. Notizia su Dio, sul volto di Dio. 
                    Per 
                      questo, anche per questo, il vangelo è notizia buona, 
                      sorprendente. Che buona notizia sarebbe un Dio che dà 
                      secondo le prestazioni? È quello che succede normalmente, 
                      saremmo nell'ovvietà assoluta.  
                    Stupore 
                      del vangelo è la "grazia", che poi abbiamo 
                      ridotto a una cosa, a una quantità da ottenere, dimenticando 
                      che è la "bellezza della gratuità" 
                      di Dio. Una bellezza che finisce per contagiare anche i 
                      figli, i figli di un Padre che è lo splendore della 
                      gratuità: un Dio che quand'anche tu perdessi la fede, 
                      lui non ti perde, lui rimane fedele. Un Dio che, quando 
                      ha camminato sulle nostre strade e le mani di qualcuno l'hanno 
                      toccato, ebbe il sussulto di chiamare "amico" 
                      il discepolo che lo tradiva, e nel modo più dissacrante, 
                      Giuda. E non erano parole tanto per dire, Gesù non 
                      ha mai detto parole tanto per dire. Era la notte della grazia, 
                      della gratuità: l'ha chiamato "amico". 
                    Per 
                      contagio, vi dicevo, i figli, chiamati allo splendore della 
                      gratuità. Vorrei leggervi un passo del vangelo di 
                      Matteo in cui Gesù invita a superare la logica di 
                      una ristretta reciprocità. Se non vogliamo essere 
                      come i pagani, come a dire che questa è la cartina 
                      di tornasole dei veri credenti. 
                      Mt 5,43-48: "Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo 
                      prossimo e odierai il tuo nemico, ma io vi dico amate i 
                      vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perchè 
                      siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo 
                      sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra 
                      i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che 
                      vi amano che merito ne avete Non fanno così anche 
                      i pubblicani? E se date il vostro saluto soltanto ai vostri 
                      fratelli che cosa fate di straordinario? Non fanno così 
                      anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è 
                      perfetto il Padre vostro celeste". 
                    Capite 
                      a che cosa si riferisce Gesù quando invita a essere 
                      perfetti come il Padre che abbiamo nei cieli? Noi - ecco 
                      la domanda - rimandiamo al mondo questa sorprendente immagine 
                      di Dio o ci opponiamo alla gratuità del padre, così 
                      come si opponeva il figlio maggiore del padre prodigo? 
                    Dovremmo 
                      più spesso ricordare anche che la gratuità, 
                      la parola "grazia" (si dice infatti grazioso ciò 
                      che è bello), ha nella sua radice il significato 
                      di bellezza. La chiesa che mercanteggia perde la bellezza 
                      del suo Signore. Si va - purtroppo succede anche di questi 
                      tempi! - a contrattare con coloro che contano o si va a 
                      circoscrivere l'infinito, l'infinito del gratuito, l'infinito 
                      della grazia. Se noi vi diamo questo, voi ci dovete altrettanto. 
                      Vi diamo una moschea, voi ci date una chiesa. E' un esempio, 
                      se volete. Questa, a mio avviso, può essere una, 
                      anche se non la sola, una delle ragioni della pesantezza 
                      della chiesa. Talora si respira - lo dicevamo la volta scorsa 
                      - un clima pesante, che risente di una perdita, la perdita 
                      della gratuità: la pesantezza della predicazione 
                      di un Dio che non è a salvezza, è a incenerimento, 
                      incenerisce con l'inferno. Pesantezza della predicazione 
                      riflesso della pesantezza del nostro giudizio, che ha cancellato 
                      la gratuità. 
                    Pesantezza 
                      della chiesa e pesantezza della società, pesantezza 
                      del nostro vivere quotidiano, dove a regalo deve corrispondere 
                      regalo, a tanto tanto, perché avvenga la proporzione, 
                      la proporzione, e non la sproporzione, non la grazia, non 
                      la gratuità. 
                    Una 
                      domanda mi bussa al cuore: è in questa direzione 
                      che troveremo la gioia, è nella logica dello scambio 
                      che saremo un po' più beati? O nella direzione opposta 
                      del non ricevere contraccambio?  
                    La 
                      domanda può sembrare provocatoria. Ma non era forse 
                      un provocatore anche Gesù? Non era forse stato provocatore 
                      il giorno in cui, in casa di uno dei capi dei farisei, proprio 
                      a lui, che l'aveva invitato, rivoluzionò la mappa 
                      degli inviti dicendo: "Quando offri un pranzo o una 
                      cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, 
                      né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché 
                      anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. 
                      Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, 
                      zoppi; e sari beato perché non hanno da ricambiarti" 
                      (Lc 14, 12-15). E non era certo, il suo, un invito a escludere 
                      parenti e amici, metteva invece in guardia da un costume, 
                      da una legge asfissiante, quella del contraccambio, che 
                      sta segnando pesantemente questa nostra stagione. Alzava 
                      il velo sulla beatitudine della gratuità. Legge evangelica, 
                      lasciata in eredità ai discepoli di tutti i tempi. 
                      Quasi fosse questo il modo di continuarne la memoria sulla 
                      terra: continuate la mia memoria con uno stile di gratuità. 
                      Ne stiamo continuando la memoria? Oggi più di ieri 
                      o meno di ieri? 
                    Ricordo 
                      che un mio amico, Vincenzo, frugando tra i ricordi della 
                      vita nei campi, un anno fa parlava di un altro "rito" 
                      che si celebrava, tra stalle e prati, nelle stagioni passate, 
                      quando i contadini, al sopraggiungere della festa dell'Ascensione, 
                      non era detto che mettessero piede in chiesa, però 
                      in quel giorno distribuivano latte a tutti gratuitamente. 
                      Latte per tutti e non era acquisto per vendita. E il latte 
                      che cresceva, dopo quella universale gratuita abbondante 
                      distribuzione, non poteva essere venduto, veniva offerto 
                      alle bestie nelle stalle. Mi colpiva nel racconto quella 
                      connessione sorprendente tra l'Ascensione e la gratuità 
                      del latte. Mi veniva spontaneo pensare che vi fosse custodito 
                      un messaggio: ora che Lui se ne è andato per i cieli, 
                      tieni viva sulla terra la gratuità del tuo Signore. 
                    E 
                      sarai beato, sarà via di beatitudine, di felicità, 
                      quella felicità che tutti stiamo inseguendo. Alle 
                      beatitudini del monte Gesù lungo la vita ne ha aggiunte 
                      altre. Questa è una. Dimenticata: "Sarai beato 
                      perché non hanno da ricambiarti". 
                    La 
                      legge del contraccambio, della proporzionalità non 
                      ci mette al riparo dalla tristezza. Che fa capolino in noi 
                      ogni volta che non abbiamo il contraccambio. E chi ci potrebbe 
                      garantire che sempre e comunque avremo nella vita il contraccambio? 
                    "Sarai 
                      beato perché non hai il contraccambio". E se 
                      incominciassimo a insegnare ai figli, e prima di tutti a 
                      noi stessi, la beatitudine della gratuità? Forse 
                      vedremmo volti meno grigi per le strade. Meno pesantezza. 
                      Volete un esempio? È piccolo, quasi banale, ma dice, 
                      è sintomo di un costume che va dilagando. Pensate 
                      alla pesantezza del periodo che precede il Natale, dove 
                      a regalo deve corrispondere regalo, a tanto tanto, e perché 
                      avvenga la proporzione - la proporzione e non la sproporzione, 
                      non la grazia, non la gratuità, vera cifra del Natale 
                      - ci si perde in corse sfibranti al punto di rimanerne prosciugati. 
                       
                    Perdonate 
                      se mi rifaccio al logo della mia ex parrocchia, il logo 
                      dell'albero del vangelo. Il piccolo chicco di senapa, il 
                      più piccolo dei semi - narra la parabola - "diventa 
                      albero tanto grande che vengono gli uccelli del cielo e 
                      si annidano tra i suoi rami" (Mt 13,32). Questo il 
                      sogno del vangelo: costruire pazientemente vite, costruire 
                      comunità dove ognuno possa trovare ombra e cibo, 
                      come gli uccelli del cielo, un nido per una notte. Dove 
                      non ti viene chiesto come contropartita un ricambio, non 
                      ti viene domandato se rimarrai e fino a quando rimarrai 
                      e a quale titolo, dietro quale contropartita. Potrebbe essere 
                      questa, in una stagione dove tutto si vende e si paga, per 
                      le donne e gli uomini del nostro tempo una opportunità 
                      favorevole, quasi un albero, l'albero di Zaccheo, da cui 
                      avvistare il regno di Dio. 
                    Ricordo 
                      il volto di una ragazza della mia parrocchia. Molti anni 
                      fa mi diceva: "È dai tempi di don Giancarlo 
                      che non metto più piede in parrocchia. Forse vuole 
                      sapere perché sono qui oggi? Perchè ho ritrovato 
                      un suo scritto, là dove lei parla di un albero, quello 
                      del vangelo, che dà ospitalità agli uccelli 
                      del cielo, senza chiedere da quale cielo vengano, senza 
                      pretendere tessere di riconoscimento, senza trattenere. 
                      Ho sempre avuto paura di essere sequestrata".  
                      Nella città, forse più che altrove, avverti 
                      questo venire e questo andare che può anche lasciare 
                      un certo disagio in noi che, poco o tanto, vorremmo trattenere, 
                      definire, contare, misurare i passi dello Spirito. Anche 
                      i Magi scompaiono dietro le ultime case di Betlemme, anche 
                      i pastori dietro le dune del deserto, occasioni mancate 
                      per una certa categoria di inquisitori dello spirito che 
                      non conoscono il volto e la bellezza della gratuità. 
                    Gratitudine 
                    Gratuità 
                      richiama gratitudine, perché richiama dono. 
                      Anche la parola dono, nella sua accezione più pura, 
                      sembra evocare esperienza che sorprende, che narra un "inatteso", 
                      narra qualcosa che non era nei confini previsti del dovuto, 
                      non ti era dovuto, non era una necessità. 
                    Pensate 
                      la provocazione se mettete la prospettiva del dono a confronto 
                      con una stagione che celebra il consumo, dentro la cultura 
                      delle cose impoverite a "prodotto", consumi e 
                      getti. Dentro una spenta voracità, cioè dentro 
                      un mangiare defraudato di ogni ulteriorità, un mangiare 
                      e basta, per questo un mangiare spento. 
                    Gesù 
                      - e il memoriale della sua Cena ce lo ricorda - vede oltre: 
                      "prese il pane, e rese grazie, lo spezzò": 
                      Dentro il banchetto, ogni suo banchetto, fosse anche quello 
                      per i cinquemila, intravedi quasi una ritualità, 
                      il riconoscimento del dono, riconoscimento che diventa riconoscenza, 
                      cioè un riconoscere, non un mangiare da ciechi, ma 
                      da vedenti. Vedenti che cosa? Vedenti il dono. Vivere dunque 
                      la vita non da ciechi ma da vedenti, cioè vedendo 
                      il dono. 
                    Vivere 
                      da vedenti, riconoscendo il dono che abita le cose significa 
                      contrastare alla radice la civiltà o l'inciviltà, 
                      perdonate, dei consumi. Il prodotto si consuma e lo getti. 
                      Il dono ha dell'inconsumabile: "Fate questo in memoria". 
                      In memoria, nel pane c'è una memoria, una memoria 
                      che arde, come brace silenziosa, parla del dono. Il dono 
                      non lo getti. Custodisce per te un volto, che lo rende inconsumabile. 
                      Arde un volto. Il volto non si consuma. 
                    Si 
                      tratta, voi mi capite, di ritornare a incantarsi per l'oltre, 
                      per il volto che abita le cose e le fa dono. 
                    Ma 
                      l'incantamento, voi me lo insegnate, viene da un indugio, 
                      da una capacità di sostare. Indugiare alla soglia 
                      delle cose. La fretta è nemica, radicalmente nemica, 
                      dell'incantamento. La fretta che ci consuma è parente 
                      stretta della voracità. La fretta ci fa predatori. 
                      L'incantamento ha bisogno di sosta, di tempo, del tempo 
                      della contemplazione, ha bisogno, perdonate la parola, di 
                      lentezza. 
                    Tutti 
                      di corsa, mi è capitato di scrivere un giorno sul 
                      nostro foglio, tutti di corsa. Tutti in grugniti. E pure 
                      i bambini a volte stanchi di quello che hanno. A pretesa 
                      d'altro. Anche loro programmati. Gli occhi sono in avanti. 
                      Quasi le case e le cose fossero vuote, disabitate. Se non 
                      fosse per il timore di essere recensito tra i lodatori del 
                      tempo passato, mi verrebbe spontaneo riandare nella memoria 
                      alla gioia dei bambini che un tempo si divertivano inventando 
                      giochi sublimi con la povertà del nulla. 
                    Non 
                      sarà, me lo chiedo, che gli occhi si sono fatti opachi, 
                      opachi per cataratta dello spirito, e di conseguenza incapaci 
                      di sorprendere i colori, la bellezza, il mistero che abita 
                      le cose? Non c'è più il tempo dell'incantamento, 
                      c'è il tempo del consumo. 
                    Ai 
                      tempi di Gesù tutti vedevano gli uccelli del cielo. 
                      Lui si incantava. Vedeva il Padre che li nutriva. Ai tempi 
                      di Gesù tutti vedevano i gigli del campo. Lui si 
                      incantava. Vedeva il Padre che li vestiva. Li vestiva di 
                      un fascino che Salomone neppure in sogno si immaginava. 
                    Se 
                      il nostro frequentar chiese non ci lasciasse nell'anima 
                      questa capacità di incantarci a che varrebbe frequentarle? 
                      Se gli occhi rimanessero spenti, vitrei, sequestrati nell'opacità 
                      delle cose? Buon esercizio sarebbe frequentare chiese per 
                      tenere custodita la capacità di incantarsi. E resistere 
                      alla corsa, la corsa che nega l'incantamento, il riconoscimento 
                      del dono. 
                    Vi 
                      dicevo che il dono custodisce un volto, al dono hai legato 
                      un volto, il volto dell'altro. E quindi, a ben vedere, il 
                      vero dono non è la cosa, ma l'altro, il vero dono 
                      della nostra vita sono le persone. L'aver dimenticato questo 
                      per una sorta di ubriacatura del manufatto, della cosa in 
                      sé, ci ha portato a inseguire la grandezza della 
                      cosa da donare: dobbiamo stupire con le cose. Più 
                      grandi sono, più grande ci sembra essere il dono. 
                      Copriamo i bambini di doni per coprire le nostre assenze. 
                      Il dono al contrario, nel suo significato più vero 
                      ci ricorda l'altro. Paradossalmente meno vistoso è 
                      il dono più ci lascia vedere, intravedere il volto; 
                      più vistoso è il dono più forte è 
                      il rischio che sia in ombra il volto, in ombra l'emozione 
                      di essere stati pensati. Da qualcuno. 
                    Essere 
                      pensati è il vero dono, è ciò che ci 
                      fa rinascere. Tu mi hai pensato, io ci sono, ci sono per 
                      te. Non essere pensati da nessuno sarebbe come non vivere. 
                      Per questo nel dono ci sentiamo pensati, "concepiti", 
                      in qualche modo usciamo alla luce. Se poi il dono è 
                      da Dio - pensiamo a Gesù, il vero dono di Dio cancellato 
                      a Natale dalla vistosità degli altri doni - se il 
                      dono è da Dio, pensate l'emozione! Gratitudine per 
                      essere pensati da Dio o da una delle sue creature. 
                     
                      don Angelo 
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