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                     Figure 
                      dell'attesa: i pastori 
                      
                      Lc 
                      2,8-20  
                    
  
                      In queste sere vorrei sfiorare con voi alcune figure dell'attesa. 
                      Figure che stazionano in qualche modo nei dintorni della 
                      nascita di Gesù, nomi che si accendono: Elisabetta, Maria, 
                      il Battista, i pastori, Simeone e Anna. 
                    
 E 
                      questa sera aggiungiamo i pastori. Non so perché, o forse 
                      sì, alla figura dei pastori, figura dell'attesa, mi viene 
                      spontaneo legare d'istinto l'immagine del cammino, attesa 
                      è stare in cammino. Forse perchè lego i pastori al movimento, 
                      al loro lento migrare con un gregge: un indugio nella notte 
                      e riprende il migrare. Uomini di cammino, di cammini. 
                     O 
                      forse anche perché, nel brano di Luca che li riguarda, mi 
                      colpivano questi verbi che sono di cammino: andare, ritornare. 
                      Andare: "Appena gli angeli si furono allontanati da loro, 
                      verso il cielo, i pastori dicevano l'un l'altro: "Andiamo 
                      dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il 
                      Signore ci ha fatto conoscere". Andarono, senza indugio 
                      ". Andare. E ritornare: "I pastori se ne tornarono, glorificando 
                      e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, 
                      com'era stato detto loro". Tornare. 
                     Mi 
                      è venuto da pensare a voi. Al vostro andare fuori di casa 
                      questa sera e tra poco al vostro ritornare nella notte. 
                      Come i pastori. Quella notte per loro si aprì il cielo. 
                      E quando si aprono per noi i cieli? Lo aprì un volo di angeli. 
                      Perché? Era chiuso, ci chiediamo, il cielo? Sembrava chiuso. 
                      Non è Dio, così io penso, a chiudere il cielo, perché Dio 
                      non rinnega la promessa, quella fatta a Noè, di un futuro 
                      senza cieli di ira, senza cieli di diluvio. E l'arcobaleno, 
                      nel cielo stupito, dopo i giorni del diluvio, era come la 
                      firma di Dio. Dio firmava, firmava per l'umanità. 
                     Ebbene, 
                      il volo d'angeli sul campo dei pastori annunciava conferma 
                      di una firma, era annuncio che Dio non ritira la firma. 
                      Era dato loro un segno. Dunque i pastori, nella notte ai 
                      fuochi. E il volo dell'angelo: "Un angelo del Signore si 
                      presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse". 
                      E la prima reazione - intrigante il testo - fu di timore, 
                      quasi un timore raddoppiato, centuplicato. È scritto nel 
                      testo greco: "E temettero di grande timore". Chissà forse 
                      sospettavano che i cieli al loro aprirsi piovessero annunci 
                      di condanna, di ira. In un primo momento ebbero paura: perché 
                      sempre le autorità religiose li avevano fatti sentire sotto 
                      uno sguardo che incuteva paura. Non avevano forse da sempre 
                      fatto credere che erano degli scomunicati, loro che non 
                      osservavano le regole? Non li chiamavano forse irregolari, 
                      fuori dalle regole? 
                     Quella 
                      notte i pastori in veglia, ancora avvolti di luce, dopo 
                      un momento di spavento, sentirono nel cuore dilagare una 
                      gioia che mai avevano sperimentata così forte, perché la 
                      parola diceva che era nato, per loro - per loro! - nella 
                      città di Davide, il salvatore. Per loro, gli esclusi, gli 
                      scomunicati. Che Dio avesse pensato a loro! Sentirono sulla 
                      loro pelle, ruvida pelle, ruvida in tutti i sensi, lo sguardo 
                      di tenerezza di Dio. Quella tenerezza, che loro riservavano 
                      ai loro greggi, Dio l'aveva per loro. Una tenerezza che 
                      li faceva sentire pensati. L'annuncio li faceva sentire 
                      pensati. Si era aperto il cielo. 
                     O 
                      forse era sempre stato aperto e non glielo avevano mai insegnato. 
                      Potevano muoversi nella notte. Andarono, si incamminarono. 
                      Vedete, i nostri passi, i nostri, non sono mai i primi. 
                      Già dalle parole, che annunciavano una grande gioia, i pastori 
                      avevano come intuito che prima di loro, prima di loro e 
                      per loro, si era mosso, si era commosso, Dio. Si era mosso 
                      da quando nel giardino l'uomo si era come perduto: "Adamo 
                      dove sei?". Ma, anche glielo avessero insegnato, rimaneva 
                      una distanza. Qui il volo d'angeli parlava di un Messia 
                      che nasce, rompe la distanza, non solo accompagna, ma si 
                      fa uno di noi. Si mettono in cammino per vedere. 
                     Noi 
                      ci azzarderemmo forse ad attraversare una notte, ma per 
                      qualcosa di eccezionale, qui l'esito al viaggio della notte 
                      è qualcosa che di più comune non c'è: un bambino, fasce, 
                      mangiatoia. E bastò quello, pensate, Il cielo fu subito 
                      spento, andarono nel buio, andata e ritorno nel buio. Mi 
                      sembra di vederli, andare e tornare alla fioca luce di una 
                      lampada. Passi nel buio. Bastò quella parola, incredibile. 
                      
                     Penso 
                      a quante cose io invece esigo come condizione per mettermi 
                      in cammino, quanti segni pretenda, oltre la parola, e quante 
                      mie lamentazioni perché la fede non toglie il buio, per 
                      questo nostro andare nella notte, con lampade, con fiaccole 
                      che faticano al vento. Dissero "Andiamo dunque fino a Betlemme, 
                      vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere". 
                      
                      
                      Andarono, senza indugio e trovarono…". Ebbene, vi dicevo, 
                      allo stupore per quell'annuncio di gioia, subito smorzato 
                      dal buio, allo stupore per quel volo d'angeli subito dileguatosi 
                      con il venir meno del canto, si aggiunse presto un altro 
                      stupore: un Salvatore per loro, ma un salvatore adagiato 
                      nelle loro cose, quasi rivalutasse le loro cose. Vengono 
                      e che cosa vedono se non le cose di sempre? Un bambino nato 
                      come i loro bambini. E dove nascevano mai i loro bambini? 
                      Dove mai potevano deporli quando una delle loro donne li 
                      metteva alla luce, se non in una delle loro grotte, se non 
                      in una delle loro mangiatoie? Un salvatore uguale a un loro 
                      bambino. Un Dio, diverso da quello che veniva predicato, 
                      un Dio non fuori, ma dentro la fragilità, dentro la debolezza 
                      degli umani. Si sentirono riconciliati con la loro vita, 
                      con la loro fragilità, con la loro debolezza. 
                     E 
                      videro, dice Luca, anche quella madre. Quella madre fissata 
                      a memoria, questa sì dolce memoria, in un gesto: aveva avvolto 
                      in fasce il bambino, lo aveva deposto. La tenerezza fasciava 
                      la fragilità di un cucciolo d'uomo. I pastori vengono, contemplano 
                      e se ne vanno. Forse potremmo chiederci che cosa è cambiato 
                      in loro, nella loro vita. Certo non cambiò il corso delle 
                      cose, i loro sentieri continuarono ad essere i sentieri 
                      del gregge e non certo quelli delle pratiche rituali. Che 
                      a loro, gente con fama di ruberie, erano precluse. Ma quello 
                      che avevano visto non fu mai più cancellato dalla memoria 
                      lungo i sentieri dei greggi. 
                     Che 
                      cosa infatti li aveva fatti esultare, esultare e lodare 
                      Dio? Era - ne siamo sicuri - quella immagine inedita di 
                      Dio che era loro brillata nella notte: un Dio come loro, 
                      come uno dei loro bambini, mangiatoia e fasce. Che Dio fosse 
                      grande, immenso, infinito, onnipotente erano stati tanti 
                      a dirlo nella storia. Lo si sapeva prima che quel bambino 
                      venisse al mondo. Ma in quel bambino essi videro e contemplarono 
                      qualcosa d'altro, di inatteso, di inedito su Dio. 
                     Dio 
                      è anche piccolezza, si fa piccolo, è simpatia, è compassione, 
                      è solidarietà con noi, con tutta la nostra debolezza. In 
                      questo bambino nella mangiatoia tu puoi dare un nome all'invisibile, 
                      gli dai il nome di vicinanza. Ma, vorrei aggiungere, in 
                      questo bambino nelle fasce in una mangiatoia noi possiamo 
                      dare un nome e un volto all'uomo. È come se Dio, mettendosi 
                      nelle situazioni degli ultimi, un piccolo paese, nemmeno 
                      una casa, nato piccolo, volesse rivendicare la sacralità 
                      di ogni essere umano. Quasi a dire che il valore di un uomo 
                      non sta nelle case più o meno fastose o povere che abita, 
                      non sta nei ruoli più o meno importanti che ricopre: Tu 
                      sei sacro per Dio non perché hai un titolo, hai una ricchezza, 
                      hai una cultura, hai una fede, appartieni a una razza o 
                      a un'altra, sei buono o sei cattivo,ma semplicemente perché 
                      sei un uomo, sei una donna. Per il fatto di esserci. 
                     Per 
                      il semplice fatto di esserci, ogni creatura è sacra. Un 
                      segno di speranza e l'indicazione di un cammino. Ricordo 
                      le parole di Tommaso da Celano che, del Presepe vivente 
                      di Greccio voluto da Francesco d'Assisi, scrive: "Risplende 
                      la semplicità evangelica si loda la povertà si raccomanda 
                      l'umiltà". 
                     Colpisce 
                      infine, ed emoziona a non finire, il silenzio della nascita. 
                      Alla mangiatoia non ci sono parole, il canto degli angeli 
                      solo sul campo dei pastori. Non una parola né di Maria né 
                      di Giuseppe, né dei pastori, forse solo un rigo di pianto 
                      del bambino. Il mistero è tutto giocato e vive in occhi 
                      e sguardi. Non una parola dei pastori alla mangiatoia, a 
                      loro le parole vennero dopo. Dopo aver contemplato. Sulla 
                      via del ritorno, come dovrebbe essere per ognuno di noi, 
                      andarono e "riferirono ciò che del bambino era stato detto 
                      loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette 
                      loro dai pastori. Maria, 
                      da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel 
                      suo cuore". 
                     Rimane 
                      nei nostri occhi questa immagine di Maria silenziosa, lei 
                      a tentare, con quel suo cuore e quel suo corpo di adolescente, 
                      di mettere insieme quello che sembrava inconciliabile: da 
                      un lato le parole alte dell'angelo e dall'altro come tutto 
                      era accaduto. Ancora le risuonavano in cuore le parole a 
                      promessa: "Sarà grande, sarà chiamato figlio dell'altissimo". 
                      
                     Ebbene 
                      non c'era stato per lei volo di angeli a illuminare la nascita, 
                      anche se le era stato assicurato che il suo sarebbe stato 
                      un figlio destinato a un trono. Fu nascita, come ogni nascita 
                      da donna. Aveva sperimentato l'emozione di un cucciolo d'uomo 
                      che sguscia a fatica dal grembo, l'emozione di guardarlo. 
                      Era figlio dell'Altissimo e stava nello spazio tenero dell'incavo 
                      di due mani. Di lui le era stato detto: "avrà il trono di 
                      Davide, regnerà sulla casa di Giacobbe, il suo regno non 
                      avrà fine" e nasce fuori non solo dalle regge, ma anche 
                      da una casa, non c'era posto nemmeno in una casa. E a riverirlo, 
                      a vedere quel figlio che era la buona notizia di Dio, chi 
                      aveva visto arrivare? Pastori, gente sospetta e scomunicata, 
                      lui visitato da gente di moralità dubbia e ignorato da gente 
                      ortodossa. 
                     Ed 
                      ecco il verbo: "Maria" così dice il verbo greco: "metteva 
                      insieme" (Lc 2,19), tentava di mettere insieme nel suo cuore 
                      ciò che era distante, tanto distante, troppo distante. Ritorniamo 
                      alle cose di sempre, dopo esserci stupiti come i pastori. 
                      Tra poco all'andare succederà per voi il tornare. 
                     Anche 
                      loro tornarono alle cose di sempre, greggi e pascoli e bivacchi 
                      di notte. Ma con uno sguardo diverso. Che non era di sottovalutazione 
                      della loro vita, come se le cose, quelle cose, fossero di 
                      meno. Paradossalmente erano diventate di più, chiedevano 
                      più passione e più cura. Perché anche Dio si era messo in 
                      quelle cose, le loro cose, mangiatoia e fasce di cuccioli 
                      d'uomo. Come i pastori facciamo processioni in direzione 
                      della vita. Se mai chiediamoci dove sono oggi le mangiatoie, 
                      dove i panni di neonati esclusi per i quali non c'è posto, 
                      dove oggi fuochi di bivacchi. Diamo nomi alle esclusioni 
                      di oggi. Diamo nome ai bivacchi del nostro tempo. 
                     È 
                      un invito a invertire la processione, ad andare là dove 
                      violata è la dignità di un uomo e di una donna. Là va fatto 
                      il Natale. Questo sembrano dirci i pastori, facciamo il 
                      Natale, fuori dai sentimentalismi facili: Dio è nella carne 
                      viva e debole di ogni essere umano. Fascialo, prenditi cura. 
                      Prenditi cura di ogni essere umano. Semplicemente per il 
                      fatto che è un essere umano. Fascialo, prenditi cura. Perché 
                      è lì che oggi ancora il Verbo si fa carne. 
                     Andarono, 
                      tornarono. Ed ecco che dal testo sguscia un altro verbo 
                      su cui non abbiamo tempo di indugiare, lo evoco e lo lascio 
                      alla vostra riflessione: "riferirono", raccontarono. La 
                      nascita diventa racconto, racconto di Dio, sulle labbra 
                      di scomunicati, intorno ai bivacchi, là dove ci si raduna 
                      a scaldarsi. Passava la notizia buona. Anche noi torniamo. 
                      Raccontiamo. 
                     Oggi 
                      c'è bisogno meno di prediche, ma più di racconto. Raccontare 
                      è un verbo che ha calore. I pastori non son nell'ufficialità 
                      dei sermoni, che piovono dall'alto. Raccontare è un verbo 
                      della casa, alla tavola ci si racconta. Se sei andato, se 
                      ora sei tornato, ti verrà spontaneo far scivolare, ma senza 
                      forzature, la notizia buona. Che ti ha preso il cuore.  
                       
                       
                      
                      don Angelo Casati 
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