interventi


Angelo Casati, il 1° dicembre 2014, Santa Maria della Passione, in Milano

 

Figure dell'attesa: Elisabetta


Lc 1,39-56


In queste sere vorrei sfiorare con voi alcune figure dell'attesa. Figure che stazionano in qualche modo nei dintorni della nascita di Gesù, nomi che si accendono: Elisabetta, Maria, il Battista, i pastori, Simeone e Anna.

Inizio con Elisabetta. Con Elisabetta, perché prima della annunciazione nella casa di Nazaret, avvenne una annunciazione a Zaccaria, marito di Elisabetta che officiava da sacerdote, nell'ora dell'incenso nel tempio. Ebbene, perdonatemi se io questa sera dimenticherò Zaccaria. Una buona volta metto in secondo piano il maschile e riporto in primo piano, così come mi riesce, una storia di donne.

Non che la storia di Zaccaria, non abbia nulla da insegnarci. Già è fessura il fatto che, non credendo alle parole dell'angelo che annunciava nascita nel grembo di una donna sfiorita, la sua, non credendo all'azzardo di quelle parole mescolate a incenso, divenne muto. Quasi a dire che se non ci si affida, se la vita è segnata prepotentemente dalla diffidenza, non abbiamo più parole da dire, ma solo parole mute, che non dicono nulla a nessuno.

Ma c'è un motivo per cui vorrei parlare di Elisabetta, perché di solito i racconti che riguardano uno o l'altro di noi, le storie le facciamo incominciare dal giorno della nascita. Dal giorno in cui uno viene, così siamo soliti dire, alla luce. Ma la vita non nasce all'improvviso, ha bisogno di un tempo per prepararsi. Chi ha aspettato un figlio lo sa. Conosce le ansie, le meraviglie, le fatiche, i sudori e lo stupore di quei nove mesi.

La storia di Elisabetta la vorrei fermare questa sera ai tempi dell'attesa, ai giorni invisibili del grembo. Mi è capitato di pensare che raramente indugiamo a pensare ai giorni in cui abbiamo dimorato nel grembo, alle trepidazioni e anche alle fatiche da gonfiore che hanno accompagnato i nove mesi. In uno scambio reciproco, in trasformazioni lievi ma tenere dell'uno che è portato e dell'altra che lo porta. Raramente sosto a pensare alle fatiche di quando mia madre saliva scale ed io le pesavo dentro. Ai gradini, allora senza ascensori, nella mia casa di Milano. Lei mi portava, forse anche mi parlava. Le sono grato per i nove mesi.

Non so se alla propria madre Gesù e il Battista, qualche sera o qualche mattino, quando la luce ha la timidezza di un intimo dialogare, abbiano chiesto dei loro nove mesi nel tepore. Se scalciavano o se stavano quieti in attesa. Di Elisabetta nel vangelo si fa una prima menzione per dire che lei e suo marito erano giusti davanti a Dio, osservanti fedeli delle leggi. E quasi con un po' di meraviglia, come se non lo meritassero, si aggiunge che "non avevano figli perché Elisabetta era sterile e tutte e due avanti negli anni".

Poi l'inaudito, un angelo porta annuncio di nascita a Zaccaria.
23"Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. 24Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: 25"Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini".
All'inizio, dice il racconto, per Elisabetta fu un portare nel grembo. Tenendo quasi nascosto il rigonfiamento, le era stata tolta la vergogna della sterilità.

Passano cinque dei nove mesi, ma al sesto ecco un annuncio di nascita per la sua cugina che al confronto era una ragazzina. Ed Elisabetta rientra in scena, proprio quando quella sua cugina molto più giovane, va a visitarla. E fu un incrociarsi di grembi ricolmi. Sì, dopo l'annuncio dell'angelo il vangelo racconta i giorni della visitazione. Perché Maria si mette incammino in fretta verso la montagna di Giuda? Certo per dare un aiuto alla cugina anziana che si era trovata incinta nonostante l'età. Ma penso anche per un bisogno di raccontarsi, di confidare un segreto. Donna dell'attesa che incontra un'altra donna in attesa. Si abbracciano, si raccontano.

Certo, la forza di resistere nell'attesa, in attesa di eventi così diversi da quelli che si aspettavano, loro la andavano chiedendo a Dio, ma avevano anche bisogno - noi abbiamo bisogno - di presenze amiche. Nell'attesa di eventi abbiamo bisogno di raccontarci, soprattutto quando le attese sono distanti da come le avremmo immaginate. Lei, donna incinta per opera di Spirito santo, la cugina, incinta proprio nei giorni in cui il suo grembo lo davano per disseccato!

La storia delle due donne ci dice come non sia irrilevante questo bisogno di comunicazione. E quindi non togliamo valore e urgenza anche al bisogno che pure noi abbiamo di creature con cui confidarci reciprocamente le attese. Mi sono detto: se pensassimo alla grazia degli incontri, i nostri, che custodiscono questa affascinante possibilità: di comunicarci momenti di bellezza, di comunicarci racconti dello Spirito, di comunicarci entusiasmo, gioia, consolazione, sostegno, fedeltà! Accadimenti dello Spirito, occasioni per una nuova pentecoste!

Leggo il vangelo della visitazione e indugio all'immagine colma di tenerezza delle due donne, Maria ed Elisabetta, abbracciate, abbracciate in un momento di gioia intensa, abbracciate l'una all'altra nella promessa di Dio e nella promessa della vita. Leggo ma confesso che, in contemporanea, non mi riesce facilmente di togliermi dagli occhi altre immagini, che mi bussano da una cronaca quasi quotidiana, dove quasi ogni giorno leggiamo di donne violate, stuprate, inseguite, uccise.

Storie che raccontano l'offesa della dignità. Ogni due giorni un femminicidio. Immagini contrastanti, abissalmente distanti, contrapposte: l'abbraccio alla porta della casa di Elisabetta e le sequenze dell'orrore dell'ultimo femminicidio. Come se ogni giorno assistessimo all'insulto e all'aggressione. Aggressioni alla vita che uccidono la speranza in un futuro che sia promettente. Ci servono delle leggi, è urgente. E che non si perda più tempo. Ma ci serve anche e soprattutto una conversione.

In termini più laici diremmo: ci serve, è urgente un cambio di mentalità. Le due donne sull'uscio di casa ascoltano la voce che viene dal grembo. Il bambino dell'una e dell'altra fanno racconto, raccontano a loro, giorno e notte, che Dio le ha guardate con benevolenza. C'è un segno anche nel loro corpo, un segno nella carne. Dio non guarda l'apparenza, ha fatto cose grandi in due donne, Maria ed Elisabetta, umili e sconosciute.

Qui, se non erro, sta la radice del rispetto, della salvaguardia della dignità. Sta in questo leggere sempre comunque qualcosa di grande nel piccolo. Il grande nel piccolo! Nel debole, nell'indifeso, nel bisognoso di aiuto. Il rispetto della dignità dell'altro sgorga dal tuo sguardo, uno sguardo che legge l'altro, legge l'altra, non come vuoto, non come assenza, ma come creatura abitata, creatura in attesa. Abitata da qualcosa di grande! Che un giorno troverà l'ultima difesa nel futuro di Dio.

Dovremmo recuperare questo sguardo e questo rispetto, che pervadono il racconto di ciò che avvenne quel giorno sull'uscio della casa sui monti di Giuda. Avvenne come una pentecoste, un flusso dello Spirito. E - a stupire! - una pentecoste non in chissà quali spazi sacri o in forza di chissà quali riti o preghiere, semplicemente per uno scambio di saluti, per un sussultare dei corpi. Non sto fantasticando, è scritto: "Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo".

È stupefacente! E chi ce lo ha mai insegnato che a propiziare discesa dello Spirito possono bastare parole semplici di saluto, o può bastare uno sfiorarsi dei corpi, quasi un rito laico, il rito del saluto, il rito dell'abbraccio, sull'uscio di casa? A noi può succedere invece di attraversare le soglie di casa come fossero vuote e di vivere i gesti come fossero vuoti. Vuote le soglie, vuoti i gesti. I corpi poi - altro che presenza dello Spirito! - li abbiamo a lungo censurati come distanza da Dio. Mentre lo Spirito - dice il racconto - deborda, deborda nei corpi.

Scrive un teologo, psicanalista e poeta brasiliano, Rubem A. Alves: "Abbiamo pensato di incontrare Dio dove il corpo finisce: e l'abbiamo trasformato in bestia da soma, in esecutore di ordini, in macchina per il lavoro, in nemico da mettere a tacere, e così lo abbiamo perseguitato, al punto di far l'elogio della morte come via verso Dio, come se Dio preferisse l'odore delle tombe alle delizie del paradiso. E siamo diventati crudeli, abbiamo permesso lo sfruttamento e la guerra. Perché se Dio si trova al di là del corpo, allora al corpo tutto può essere fatto" (Rubem A. Alves, Il canto della vita, Qiqajon, 2013, p. 11).

Maria ed Elisabetta si parlano come donne abitate. Fin nel corpo abitate. E l'una sente, vede l'altra come un dono, un dono immeritato: "A che cosa devo?". Sì, "a che cosa devo che la Madre del mio Signore venga da me?" Con parole simili Davide aveva un giorno accolto l'arca del Signore. Davide in quel giorno uscì in una esclamazione: "Come potrà venire a me l'arca del Signore? " (2 Sam 6,9). E ora, sull'uscio di una casa, si odono quasi le stesse parole: "A che cosa devo che la Madre del mio Signore venga a me?".

Dunque arca della presenza di Dio nei tempi nuovi è una creatura. Certo Maria, ma anche Elisabetta con quel figlio che sussulta nella sua carne, ma poi ogni creatura, perché ogni creatura - dovremmo ripetercelo - ogni creatura che incontriamo non è il vuoto, è abitazione. È abitata da Dio. Portatrice di dignità, di una dignità ineguagliabile e inviolabile. È il sacro scritto nella carne, è una zolla del divino - perdonate se mi esprimo così - una zolla del divino che ha preso dimora nelle fibre più segrete dell'umanità. Della nostra terra.

E sull'uscio di casa un canto, il "magnificat". È vero, il canto di Maria, il "magnificat", non si è più spento. Da allora, da quel primo giorno sulla montagna, ha invaso a ondate le nostre chiese. È bello pensarlo. Di quel canto sono colme le chiese. Ma non dobbiamo dimenticare - spesso lo dimentichiamo - che quel canto è nato sulla soglia di una casa, non in un luogo sacro, ma in un luogo laico, profano. Non nell'aria austera di un tempio, ma in quella familiare di una casa.

E vorrei - lasciatemi dire - vorrei che non fosse derubato, forse lo è stato, di questa sua tipicità: di essere un canto dentro le case, dentro la vita. Come vorrei - lasciatemi dire anche questo - che non fosse un canto derubato della sua carica rivoluzionaria, perché le parole di Maria, che attingevano a una conoscenza profonda delle Scritture ebraiche,sono parole che vibrano di una sfida, la sfida della fede, che canta un rovesciamento, il rovesciamento operato da Dio. Che si abbassa, si china sulla storia degli umili.

"Ero piccola" dice Maria "ha guardato la mia bassezza". Canto che celebra non il gonfiarsi sterile delle ambizioni mondane, ma il gonfiarsi tenero dei grembi delle donne. La storia sembra andare in un'altra direzione. Sembrano vincenti l'arroganza, la prepotenza, il denaro. Sembrano vincere quelli che si innalzano. Ma Dio li fa bassi - così canta Maria - Dio li fa bassi ed esalta gli umili. Che non sono, badate bene, i remissivi, i paurosi, i timidi. Non appare tale Maria nel suo canto. Gli umili hanno una loro forza, che non è quella delle istituzioni, non è quella delle leggi, e tanto meno quella delle armi, ma quella dello Spirito; per questo non si piegano davanti a nessuno, perché adorano solo Dio.

Forse meraviglia anche voi il fatto che Maria parli della vittoria degli umili non al futuro, per lei Dio li fa già vincenti sulla terra. Sono la benedizione di questa terra che si regge per loro. Per loro che portano non paura ma consolazione. Poi ci sarà per loro la terra futura.


don Angelo Casati

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