articoli di d. Angelo


 

Un tempo per cominciare, un tempo per finire


Non ti nascondo che oggi, scrivendo, mi prende nodo d’emozione. La sento pulsare ai polsi, arrivare agli occhi, bussare fino quasi a inumidirli. Qualcuno, più temprato d’ascesi, più santo, saprebbe dominare le emozioni, fors’anche zittirle. Confesso lontananza da queste terre alte d’ascesi, e appartenenza a misure più umane, più comuni, più terrene. Uomo. Come tanti.

“Uomini” ha scritto qualcuno “non si nasce, ma si diventa.” Grazia delle grazie, mi sono sempre detto, sarebbe diventare uomo come Gesù. Sogno di una vita, sogno inseguito. E sono qui a confessare la distanza. Che, posso sbagliarmi, penso non stia nell’assenza dell’emozione.

Emozione anche per un foglio. Come - direbbe qualcuno - ti perdi per un foglio? Con questo foglio ci fu un appuntamento, ogni mese. E dura da più di vent’anni. Per una sorta di fedeltà, che non andava violata.

Ebbene c’è un tempo per cominciare, c’è un tempo per finire.

Che cosa ricordo del giorno in cui iniziai a scrivere su questo foglio? Ricordo che era dicembre nella nostra città. Dicembre di ventidue anni fa, il primo foglio. La città di dicembre, i rumori, il passo affrettato, l’affollamento dei negozi a seduzione di Natale, le facce intirizzite dai primi rigori dell’inverno. Sentivo la stranezza della scrittura. Solitamente scrivi a volti che insegui: ti si illuminano scrivendo, come se tu parlassi non a pagine, ma a occhi. E apri il cuore. In quel dicembre fu un parlarsi per un azzardo di fiducia. Che non poteva essere scontata. Ma solo attesa, sperata. Nell’azzardo della gratuità di chi ti legge.

Oggi scrivo che è domenica di agosto. La città semivuota, alle finestre bussa il rumore leggero del silenzio, un refolo di vento pulisce il cielo, il ripetersi accorato a intermittenza di un richiamo sonoro di allarme sembra dilatare gli spazi. La città vuota e il cuore colmo. E visi e visi che navigano. Navigano a non finire, per tratti di mare, nel cuore. Questo piccolo cuore. Ed è pomeriggio d’agosto, pomeriggio di navigazione. Nel cuore.

C’è un tempo per cominciare e c’è un tempo per finire. Ricordo il primo foglio. Allora era un foglio verde. Non aveva un nome, suo. Verde, perché il colore lo distinguesse dalle pagine bianche della rivista della Diocesi “Il segno”, in cui era mensilmente ospitato. Poi divenne foglio a sé. Lo chiamammo “Come albero”. E non era solo desiderio di dare un nome, a fuga da anonimato. Non era un nome qualunque. Il nome diceva un sogno, sogno di vangelo: il seme e l’albero del vangelo. Lo ricordavo lo scorso mese, ripercorrendo la storia della nostra piccola cattedra dei non credenti. Era più che nome, era un sogno.

Coscienza di una piccolezza, dichiarata: piccolo seme di senapa. E desiderio di illimitatezza: i rami sognano, inseguono il vento, inseguono il cielo, ospitano. Ospitano, punto e basta. In assenza di porte. Ma tra i rami, disegnati per il vento, un nido, il piccolo calore del nido. Siamo stati rami al vento? Siamo stati nido?

Mi sono detto che il logo “come albero” poteva forse essere evocativo anche di un cuore. Il cuore di un prete minore. Prete minore come questo, che sta per lasciare. Cuore dunque “come albero”. Illimitatezza e calore. Ospitalità. Anche per uccelli “migratori”. Gli uccelli migratori, che mi ha ricordato in questi giorni un amico con una poesia di un libretto di Haiku, che mi ha regalato: uccelli migratori - anche la casa dove sono nato è oggi il tetto di una notte.

Ora che lascio, più acuta si fa la coscienza di non essere stato abbastanza l’“illimitato” dei rami che respirano il vento e il “calore” del nido che accoglie. E dunque rimane a memoria la coscienza di avere molto da farmi perdonare. Molto.

Ma, insieme alla coscienza dell’avara misura che ha segnato questo mio ministero nella grande città, lo stupore per la grazia che mi fu concessa. “Grazia”, la parola dice dono per cui trasalire. E non certo merito da sbandierare.

Quante volte in questi anni mi sono chiesto come fosse possibile contenere. Contenere in questa misura limitata del mio cuore tante storie, tanti cammini. Ospitare, anche per poco. E commuoversi ai voli. Voli che non sempre bevono il cielo. A volte conoscono ferite che risucchiano verso la terra. E ripartenze dolorose. Essere nel nido e essere nel volo. Come poteva il cuore contenere? Ospitare? Se non per “grazia”? Sarebbe dissacrazione, sacrilegio, ingenuità imperdonabile attribuirne il merito alla propria misura. Tanta e tale è la sproporzione tra il piccolo di un cuore e lo sconfinamento delle mille e mille storie che sono state ospitate.

Ospitare e inseguire, sia pure per un breve tratto, i voli. E sognare che negli occhi degli uccelli, lungo rotte invisibili, fatte di vento, sia rimasta l’attrazione per Gesù. E sia lui a condurre e a soccorrere il volo. E non ne impallidisca mai la memoria nella sete degli occhi. Lui. E nient’altro che il suo vangelo. Se fossi riuscito a tanto o se questo in parte avessi almeno sfiorato, se questo fosse rimasto nelle vene di donne e uomini con cui ho camminato, mi verrebbe da esultare. Come per una grazia, la grazia delle grazie.

La sete di Gesù negli occhi. Dentro i voli, i voli della vita. La sete che ci salva. Salva dal fuoco fatuo, pallido delle idolatrie, civili e religiose.

Delle mille e mille e mille storie che mi hanno emozionato in questi anni, storie di voli, che hanno traccia nel cuore, vorrei qui ricordare, su questo foglio ultimo, simbolo di tante altre, quella di una donna che qualche anno fa venne a cercarmi, per via che un giorno le era capitato di ascoltare il mio nome ad una trasmissione e l’aveva annotato. Mi raccontò come, poco tempo prima, in una delle sue notti, forse la più imbevuta di disperazione, a un tratto, inaspettatamente, in lei, che da trent’anni non metteva piede nelle chiese, proprio in lei, nella sua mente, fosse sbucata all’improvviso una invocazione, piccola come brivido di luce nella notte. Questa: “Dì una sola parola e sarò salva”. “Trovai” mi disse “la pace.” Provo ancora emozione al racconto. Non mi si cancellerà tanto facilmente dagli occhi quella notte, la risposta di luce al grido disperato di una donna, lo stupore per il filo che, dopo anni e anni, la ricondusse a Gesù, a una invocazione del vangelo, lo stupore per un filo ancor più esile, quello di una trasmissione che aveva condotto a me quella donna.

Che ne sai tu del volo degli uccelli? E come puoi augurarti che unica sia la loro rotta nel cielo? Niente imprigionamenti. O sequestri in rotte predeterminate. Purché rimanga sete di Gesù e della sua parola negli occhi, nelle rotte per il cielo. Ho osservato in questi anni, stupendomi, mille e mille e mille rotte nei cieli.

Forse è ora che chiuda la pagina di questo foglio. C’è un tempo per aprire e c’è un tempo per chiudere. A riaprire questo foglio sarà un amico, don Giuseppe Grampa. E ancora sono qui a registrare la bellezza di un filo: la conoscenza viene da lontano. Quando ero ancora giovane prete, ebbi l’avventura di conoscere, in anni non dimenticati, la sua famiglia, in una parrocchia di Busto Arsizio. Mi sono rimasti amici, da allora, lui, il fratello, vescovo a Lugano, i suoi. Sarà lui ora a seguire e a sorprendersi ai voli.

C’è un tempo per cominciare e c’è un tempo per chiudere. Di solito si celebra la bellezza del cominciare. Meno, quasi mai, la bellezza del chiudere. Da bastian contrario come sono, vorrei dire che c’è bellezza, bellezza da assaporare, anche nel chiudere: proprio allora ti è dato sentire quanto del popolo, con cui hai camminato, ti sia rimasto nelle vene. Quanto dei loro visi, dei loro voli pulsino in te! E misuri anche quanto le loro storie ti abbiano, per grazia, aiutato. Aiutato anche ad essere prete, prete un po’ meno “prete”, lontano da derive clericali.

Così, chiudendo, il pensiero va a tutti voi. Come l’apostolo Paolo, ma da smisurata distanza, vorrei dirvi: “La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori… scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2 Cor 3,3). La mia lettera, siete voi.

C’è una bellezza da assaporare anche nel chiudere. È quella che ti assale quando osservi il viso di coloro con cui hai diviso giorni e notti e ti prende stupore per come sono cresciuti nel viaggio, dovrei dire, per come sono cresciuti all’ombra della Parola di Dio. Non sono imprigionati né potranno più esserlo. Non sono schiavi, di niente e di nessuno. E’ come se la Parola di Dio li avesse liberati dalle mille vischiosità mondane ed ecclesiastiche. Li senti maturi e liberi, come Dio vuole i suoi figli. Uomini e donne che onorano la libertà della coscienza, l’impronta più alta del Dio in noi.

Proprio sapendo di questa mio profondo convincimento che la vera lettera siete voi, “grandi” sono stati i miei collaboratori più vicini a non cedere al rituale in uso quando un prete se ne va. Quasi sempre succede che si vada ad immaginare pubblicazioni patinate, spesso di maniera, per lo più enfatiche, con destinazione aria chiusa di cassetti dimenticati. Loro invece, don Alberto, don Paolo, don Giorgio e , con loro, i collaboratori che mi sono stati vicini in questi anni, “grandi” nei pensieri del vangelo, mi hanno risparmiato gli incensi fuori misura di un libro patinato. È altro il luogo su cui scrivere, altro il luogo su cui Dio ama scrivere, altro il luogo su cui noi scriviamo i nomi amati. Nomi che ci accompagnano, per le rotte infinite dei cieli.

“La lettera siete voi.” E non ha pagine finite.

C’è un tempo per chiudere e c’è un tempo per riaprire.

Per riaprire in un luogo più segreto. Il luogo dell’anima.

don Angelo


 
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