articoli di d. Angelo


 

RESTRIZIONE E SCONFINAMENTI

suggestioni dall'Andalusia

Forse è un bisogno di raccontare, di condividere, che spinge a lasciare appunti su fogli precari, spesso strappati, quando sei lontano dal tuo paese, soprattutto dai tuoi amici, loro sono il tuo paese e, se sono veri, sono paese senza confini, paese aperto, senza frontiere.
Ora, rivisitando gli appunti, appunti di un viaggio in Spagna, Andalusia, confesso la fatica di decifrare geroglifici, segni strani che hanno tutto fuorché la forma di lettere e parole, scarabocchi al vento, che al loro nascere avanzavano, è vero, la pretesa di una connessione, connessi a un'emozione, a una suggestione, subito in pericolo di smemoratezza.

Ronda, profumo di suoni arabi nell'antico nome della città Hísn-Rand-Onda, arroccata nella Sierra, illuminata in un mattino di sole, quasi preludio a questo sconfinare incessante di tradizioni diverse, l'araba, la cristiana, l'ebraica. E nella Plaza Mayor de la Ciudad fin dal primo mattino, a contemplare la cattedrale eretta sul luogo dell'antica moschea, di cui resta, a memoria, la torre, antico minareto. Impigliato nell'aria - è vaneggiamento - il canto appassionato del muezzin sembra venire dagli archi in alto, ora invasi da campane.
Più in là la Plaza de Toros. Sto in alto, in disparte, sugli spalti: inseguo architetture eleganti, ma soffro quasi una sorta di spaesamento. Non mi accendono racconti di toreadores. Mi sento fuori, fuori dal paese della mattanza, fuori dai riti di sangue. Come uno che guarda da lontano. Senza paese.

Siviglia. Storia ininterrotta di moschee convertite in cattedrali, di minareti convertiti in torri campanarie.
Architetture antiche e architetture moderne, fasci di luce nella notte, seduzione di piazze e di fontane, seduzione dilatata dalle ombre.
Zampillare di fontane
fosforescenti
a gridare nella notte
spumeggiando
vittorie
insperate della luce
sulle tenebre
immote dei tempi.
E scrosci di architetture
e d'intarsi su cieli
di cobalto.
Palma
e luna esile
innamorate
a guardarsi, perdute,
nel silenzio
di notte andalusa.

E ancora fascino di una casa col nome di Casa de Pilatos, eco di un pellegrino di Terra Santa che volle la sua casa a perfetta distanza, la distanza dalla Croce. Casa e croce, e il filo della memoria, filo di congiunzione. Le nostre case legate - pensavo - a doppio filo al legno fiorito della Croce.
Il culto dell'acqua nelle città, acqua e fontane su piazze e giardini, il sogno dal deserto. Dai nostri deserti in cerca dell'acqua zampillante. E chiesa fontana del villaggio, il sogno di un Papa indimenticato, di nome Giovanni.
Fuga interminabile di Madonne e, quasi simbolo, nella Basilica della Macarena, la Virgen de la Esperanza. Ori, paludamenti regali, bardature militaresche, scenografie fastose, luccichio pesante, segno indubbio di antica devozione, ma sul confine - a me sembra - di un tradimento. Irriconoscibile o quasi la donna del vangelo, beata non per gli ori ma per la sua nuda fede.

Ai miei occhi
inquieti
eri triste e ingessata
Madonna della Macarena.
La veste
fastosa dei figli
ti rubava
ogni trasalimento.
Cercavi invano
la tua veste povera
esiliata per sempre
dai tuoi santuari.
Ed io a gridare
- gli occhi accecati d'ori
e d'argento -
il grande furto
della veste senza ingombri.
L'indossavi leggera
il cuore in subbuglio,
mentre salivi trepida
i monti di Giuda.

Impassibile, immobile, Madonna della Macarena, come forse oggi la chiesa dei palchi e dell'esibizione. E la pesantezza del vuoto.
Questa, non certo l'unica, una delle provocazioni che più ci hanno inseguito lungo le strade dell'Andalusia: il rischio di spegnere nell'immobilità la fantasia.

Vivi momenti di trasalimento nella penombra adorante della Mezquita, la moschea di Cordova.
Milleduecento anni e sembrano ieri. Ti inoltri, sedotto dal mistero, nel bosco delle novecento colonne che sembrano dilatarsi come palme di pietra e, come palme, sembrano aprire le foglie in una invocazione insistente: trasalimento.
Ma anche disagio. Dentro la seduzione dell'antica moschea soffri l'imposizione di uno spazio sacro, definito, pesante, immobile, voluto dalla riconquista cristiana. È rottura dell'incanto, del cammino, ricerca insonne del trascendimento.

Ho annusato adorando
il silenzio d'ombra
delle tue colonne, Mezquita,
il profumo dell'oltre
che le abita
e le protende.
Poi ho sofferto
e pianto
per l'incanto dell'oltre
ora spezzato.
Interruzione
della spinta segreta
del pellegrinare.
Sei una moschea in esilio.
E ora, fuori la Mezquita,
vivo la restrizione
spazi poveri
strade contratte
dentro i quartieri
della Juderia.
In esilio,
casa disabitata,
la tua sinagoga
senza preghiera.

Restrizione, sconfinamento.
Sconfinamento incessante nello snodo incontenibile di sale, di cupole, di cortili e porticati, di stagni e di fontane nel palazzo regale della Alhambra, la rossa.
E nel tetto di legno, all'ingresso del palazzo dorato una promessa: "Io sono come una corona e la mia porta è un punto d'incontro. Attraverso di me l'oriente desidera l'occidente".
Sconfinamento nel magico cortile dei leoni, oasi di pietra con centoventi colonne di palme che ti urgono lo sguardo sulla fontana, vasca di marmo, a schiena di dodici leoni, dono degli ebrei al sovrano musulmano, sconfinamento di religioni.
Ma accanto all'architettura sedotta dalla fantasia, dall'immaginazione, dal movimento, veglia implacabile, immobile, pesante, ossessiva ancora una volta, la mole incombente del palazzo rinascimentale di Carlo V.

Sconfinamento, restrizione fino all'ultima cittadina visitata, Marbella, paese dorato, turismo dei grandi più grandi, paese di pescatori, ora fatto di marmo: pesante, immobile come marmo.
Ti ho cercato invano
Marbella
nelle tue vie senza
sabbia di litorale,
per strade ovvie
di monotoni marmi
luccicanti,
tra edifici esibiti
denaro senz'anima
ostentazione del nulla.
Tu eri nella ristrettezza
intrigante
dei tuoi vicoli poveri
di pescatori,
usci su usci
a stretta di mano.
Eri nell'ombra fiorita
che ancora odora
vera umanità.

Soffrire la restrizione, sognare lo sconfinamento.

Sconfinamento dell'ultima liturgia. Eucaristia a cielo aperto, vegliata dagli alberi. Alle spalle antico arco di ponte romano, poco lontano il sottofondo musicale dell'acqua del torrente, liturgia accesa dal canto degli uccelli del cielo, eucaristia su pietra, macina di mulino, altare per l'occasione e fiori di prato dai campi. Liturgia del creato e degli uomini, liturgia del cielo e della terra, liturgia della macina di mulino: pigiata la tua vita, Signore, come l'uva nel tino; macinata la tua vita, Signore, come frumento. E ora sei pane e sei vino per noi, radunati a questa inattesa macina andalusa. Sconfinamento di liturgie.

Sconfinamento di preghiere. Era notte nella città e si andava, felpando le voci, a una meta ignorata, quartiere della città senza più voci, lungo mura bianche di monasteri, introduzione alla piazza, scavata nella penombra. E, dentro l'ombra della notte, fuori delle chiese, il Cristo dei lampioni.

Eri fuori dal rumore,
fuori dal vociare
dissacrante dei pellegrini
Cristo sconosciuto
dei lampioni.
A vegliare
la tua notte d'ombra
- insonnia del cuore -
vicoli calcinati
di silenzio.
Pareti bianche
di monasteri
quasi occhi d'innamoramento
perduti
nella tua notte
di crocifisso.
Piovono ombre dal cielo
accarezzando lentamente
fino all'intenerimento.
E forse non era
ferita al silenzio
- o solo ferita del cuore -
il nostro canto sospeso
al fiato della notte
impigliato alle luci
dei sette lampioni:
"Morto per amore,
vivo in mezzo a noi
fino a quando - io lo so -
tu ritornerai
per aprire il Regno di Dio".
Canto ora sospeso
al tuo corpo.
E da clausura
come da finestra
ora schiusa nel sonno
colpo trattenuto
flebile di tosse
punta estrema
di terra di veglianti.

don Angelo

 
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