COMPAGNO
DI VIAGGIO, UOMO DEL VANGELO
Caro
Giulio,
d'obbligo sarebbe chiamarti Dom Giulio. "Dom"
in questo caso non è errore ortografico, è
titolo riservato ai monaci benedettini. Mi va di chiamarti
Giulio, sperando che il nome pulito ti esalti, come io mi
sento esaltato ogni volta che mi si chiama Angelo. Abbandonando
ogni residuo di vecchi spagnolismi.
Ora va di moda che ci chiamino "don" e non è
che la cosa mi esalti più di tanto. Che sia, mi chiedo,
una contrazione di dominus, signore? E non aveva forse Lui
detto: "uno solo è il vostro Signore"?
E che non sia soltanto una questione di nomi forse lo capirai
dai pensieri che vado affastellando.
Ti scrivo perché è vigilia di ordinazione
sacerdotale per uno come te, che ha scelto la sequela dei
monaci. Affascinante l'avventura del monaco, ma entusiasmante
anche l'avventura del prete.
Uno di questi ultimi venerdì mi toccò di vedere
occhi sgranati. È diventata ormai una consuetudine
che, la prima sera degli incontri per i fidanzati, si perda
tempo (o lo si guadagni?) a raccontarci storie. A dirci
chi siamo, da dove veniamo, verso dove andiamo. Ci raccontiamo
pezzi di vita. Io mi innamoro a guardarli.
Si tengono stretti, si cercano la mano, si sfiorano le labbra,
raccontano storie. Storie sacre, come ogni storia in cui
sei, per grazia, sfiorato dal mistero. Poi tocca a te raccontare,
a te che sei prete. Racconti pezzi di storia, tua, in cui
sei stato sfiorato. Storia sacra. L'avventura affascinante
di essere prete. Racconti e vedi occhi sgranati. E che cosa
mai, di più affascinante di questo, potrebbe essere
dato? Di diventare compagno di viaggio di un numero sterminato
di storie. Di uomini e donne della carovana, una carovana
di varia umanità. Ricchezza ineguagliabile. A volte
ti sfiora la sensazione di essere chiamato nella notte fuori
della tenda, anche tu della razza di Abramo, lo sguardo
perso nel sussulto sconfinato delle stelle. A numerare le
stelle, a rincorrere pulsare di storie.
Comincerò col dirti che mi sento fuori paese, ogni
volta che, nel chiuso dei nostri ambienti ecclesiastici,
sento con ossessione perversa fare lamento sui tempi difficili
toccati in sorte a chi come te è chiamato oggi ad
essere prete. E non sarà invece grazia questa stagione
che ci consente di essere liberati finalmente da ciarpame
e orpelli?
Anni fa, molti anni fa, quasi quaranta, in una libreria
gli occhi mi corsero ad un libro di Padre Giulio Bevilacqua.
Era morto da due anni, cardinale per poco più di
sessanta giorni, cardinale senza amore per il rosso delle
porpore cardinalizie. Il libro non era certo tra i suoi
più famosi, ma bastava il nome a raccomandarlo: La
parola di Padre Giulio Bevilacqua. Oggi me lo tengo come
in custodia, tesoro raro come l'altro: Equivoci: mondo moderno
e Cristo.
Tra i testi raccolti nel libro una sua omelia nel giorno
della Prima Messa di un giovane confratello. Se ti riesce
di rintracciare il libro nella tua biblioteca, perdona la
presunzione, quelle parole potrebbero forse risuonare a
benedizione nel cuore di questi giorni di vigilia.
"Ama" diceva "questa generazione che ti domanda
molto. Le generazioni che non domandavano niente al sacerdote
hanno fabbricato quell'obbrobrio che si chiama clericalismo,
che è tutto fuorché qualche cosa di religioso,
perché è il ricatto, è il profitto
sulla religione.
Benedici questa generazione e spera che diventi sempre più
anticlericale. E voglio dire con questa parola, che veda
in noi non dei dominatori della vita, ma i servitori della
vita. Che veda le nostre mani vuote e pure dal più
grande obbrobrio della vita che è il denaro.
Questo domandano soprattutto a noi il Concilio e questa
generazione.
Per cui benedici anche la severità che ha questa
generazione con noi, perché questa generazione ci
dà la possibilità di restare sacerdoti, cioè
ministri della Parola e del Sangue."
Oggi che stiamo assistendo a un rigurgito di anticlericalismo,
le parole di Padre Giulio Bevilacqua dovrebbero ritornare
forse a inquietare la falsa pace delle nostre coscienze,
pronte invece a rintracciarne la causa nella malvagità
degli umani, chiusi ad ogni brivido di trascendenza.
E non sarà invece che ci vedano alla ricerca d'altro,
appassionati d'altro? D'altro che sembra aver così
poco a che fare con Gesù di Nazaret e il suo vangelo!
Lungo i secoli, tu lo sai, la figura del prete, ma non solo
quella, per cedimento a modelli mondani, si è contaminata
di segni e costumi che non le appartenevano. Fino a isolare
il prete nell'immagine della superiorità e della
distanza.
Il pericolo fu in agguato sin dagli inizi della chiesa e
l'allora papa, Pietro, ebbe la lucidità e la prontezza
di sorprenderlo, il coraggio e l'immediatezza di snidarlo
e sventarlo. Quando la folla sarà nella tentazione
di attribuire a lui il fatto che lo storpio cammini davanti
a tutti, Pietro sfuggirà con decisione alle acclamazioni,
rivendicando a Gesù, e a nessun altro che a lui,
il miracolo dell'uomo che cammina. Non il suo nome, ma quello
di un altro è da celebrare. E quando il centurione
Cornelio sulla soglia della sua casa tenterà di inginocchiarsi,
gettandosi ai suoi piedi, Pietro lo rialzerà dicendo.
"Alzati, anch'io sono un uomo".
Poi nella chiesa ci si illuse di aggiungere sacralità
al ministero lungo sentieri che non furono quelli di Gesù.
Innalzando o creando distanze, quando Gesù aveva
stupito abbassandosi e cancellando distanze.
Invano cercheresti nella vita di Gesù un vestito
diverso che lo differenzi dai suoi o predelle sacre a segnalare
la divinità. Toccò a noi inventarle. Che non
siamo Dio.
Vorrei dunque augurare al tuo ministero di prete la passione
della vicinanza che appartenne alla vita di Gesù.
Padre Timothy Radcliffe, che fu dal 1992 al 2001 Maestro
generale dell'ordine dei Predicatori, in un suo libro Testimoni
del vangelo, scrive:
"La santità della chiesa si mostra nel suo includere,
non escludere i peccatori. Come James Joyce ha detto della
chiesa: 'qui ci viene chiunque'. Inoltre offre a noi, ministri
ordinati, una visione del nostro presbiterato assolutamente
libera da ogni elitarismo clericale e fondata sulla nostra
prossimità e identificazione con le persone nelle
loro lotte e sconfitte.
Lasciatemi fare una confessione. Man mano che si avvicinava
il momento in cui sarei stato ordinato iniziai a nutrire
terribili dubbi riguardo al mio essere o meno chiamato a
diventare prete. Il clericalismo era giunto a ripugnarmi
fortemente, e così ogni traccia di superiorità
presbiterale. Ne temevo l'ipocrisia, perché spero
di non essere migliore di nessuno. Accettai l'ordinazione
soltanto per obbedienza ai miei confratelli. Potevo identificarmi
con Agostino, che quando era stato ordinato presbitero aveva
pianto. I cinici pensano che piangeva perché non
era stato fatto vescovo, ma in realtà era perché
non aveva alcun desiderio di essere prete. Dopo la cerimonia
della mia ordinazione sacerdotale, vidi con orrore il parroco
della parrocchia dei miei genitori avanzare verso di me.
Solo due anni prima mi aveva ingiunto di lasciare 'quegli
eretici domenicani', perché potessi salvare la mia
anima. In quel momento, si gettò davanti a me e chiese
una benedizione dalle mie sacre mani. Fuggii via dal ricevimento
e corsi in stanza, per recuperare la calma. Tornai indietro
solo perché uno dei miei confratelli tedeschi mi
aveva seguito al piano di sopra e cercava di parlarmi di
Heidegger! Quello era ancora peggio.
Alla fine sono arrivato ad amare il fatto di essere prete
stando nel confessionale. È lì che ho scoperto
come l'ordinazione ci porti vicino alle persone, proprio
quando si sentono più lontane da Dio. Siamo tutt'uno
con loro, siamo al loro fianco, mentre affrontiamo insieme
la fragilità umana, il fallimento e il peccato, nostri
e loro".
Perdonami, Giulio, la lunga citazione. È di un uomo
che ha visitato conventi maschili e femminili del suo Ordine
in cinque continenti e racconta questa gioia di incarnare
nel mondo, la stupefacente compassione di Dio.
Te la auguro. Ti auguro di essere prete non nella distanza,
ma nella vicinanza. Ti auguro la passione che abitava gli
occhi di un prete amico, don Isidoro Meschi, ucciso quindici
anni fa, da uno dei suoi, ai cancelli della sua comunità.
E noi
tra fotogrammi spenti
oscuramento d'umanità
su sabbie smemorate,
grigie erbe
incrudite di guerra,
osiamo, Lolo, dopo anni
il tuo volto.
Osiamo il tuo silenzio
nei nostri convegni del nulla,
nei salotti del vuoto
mediatico.
Osiamo i tuoi occhi
veri
sedotti dall'Altro.
Uomo della parola
senza incatenamento
tra giullari e profeti di corte,
lontano dai palchi
dell'ostentazione ecclesiale.
E non era luogo
dove posare il tuo capo.
Ti vedevamo andare
andare
ed era passione del vangelo.
E fu passione di Dio
passione dell'uomo.
La sera odorava a febbraio
la notte del tradimento.
Esposto alla morte.
Tu oggi fuori moda
nella sapienza blasfema
aria greve di guerre
preventive.
Anche tu morto di lama
fuori la città.
Fuori
come colui che amavi.
E dentro.
Dentro la stoltezza
del corpo dato
del sangue versato,
profezia della carne
nella chiesa dei documenti.
Tu dentro,
memoria viva
nelle case della domanda.
don
Angelo
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