articoli di d. Angelo


 

LA RAZZA DEI TRAGHETTATORI

Ci sono parole, a volte solo scritte - non conosci né volto né nome - che ti fanno dire: "Se fosse qui, l'abbraccerei". Giorni fa, fu un amico a dirmi il trasalire del cuore e voglia di baciare, patiti alla lettura di un articolo apparso il mese scorso su "Come albero": "Quando la incontri" - così mi lasciò detto sul nastro della segreteria telefonica - "dalle un bacio per me".
Trasalire del cuore e voglia di abbracciare quando leggi, come mi è capitato in questi giorni, alcune lettere. E non ci sono più sulla carta bianca segmenti, segmenti neri. Si dipanano storie. Tocchi storie che mai avresti pensato di incrociare. Di accompagnare. È come se ti portassero al largo. Sei fuori, totalmente fuori dai percorsi prefigurati, quelli di cui si sa già in partenza che si parte così e si finirà così. A metà strada, o forse anche prima, forse anche domani accade l'imprevedibile, il non programmabile. E non è così raro, credimi. Non è più così raro. Vai al largo. È sconfinamento.
Leggi e vai al largo. Mi è capitato in questi giorni per la lettera di una donna e della sua bambina. Lei era nel racconto delle parole scritte, una storia. La bambina nei colori di un disegno, i colori erano aperti, come il portale della chiesa, parole e colori senza confini.
Il racconto aveva il suo incipit nella storia di suo padre, uno di quelli "fuori", fuori dall'obbedienza quando non è più una virtù. E "dentro", dentro il vangelo, dentro le Sacre Scritture. Li leggeva loro la sera, vangelo e Sacre Scritture. Scrivendone mi sembra di sorprendere lo spazio di una casa nella penombra e un angolo illuminato: "Lampada ai miei passi è la tua parola, Signore". Perché "scon-finare" non è battere il vento o andare a vuoto.
E mi chiedevo se, ai fini della fede, contasse di più lo spazio sacro di una chiesa o lo spazio domestico di una casa.
E ancora, sempre nella lettera "sconfinata", una confessione: "Questi sono i momenti più chiari e luminosi che conservo della mia infanzia".
E ancora, sempre nella lettera "sconfinata", il ricordo della nonna materna, la sua lunga malattia e il momento del distacco: "Ero colpita dalla serenità con cui ella affrontava il dolore e la malattia, dal conforto della preghiera. Per la prima volta nella mia vita ho avvertito forte dentro di me, come una rivelazione, che non siamo solo materia, ma la nostra vita interiore e la nostra intera esistenza riceve un nutrimento e una guida grazie alla luce della fede".
Ancora una volta, nel cuore a immaginare lo spazio di una casa e, nella penombra, fatta sacra, il tenersi tenero delle mani, presentimento di altre mani di affidamento: "Nelle tue mani" - è scritto - "affido il mio spirito".
E la storia sconfina. Sconfina dal prefigurato come la storia di tutti, forse più della storia di tutti, con terre di amarezza nel viaggio, le erbe amare della traversata del deserto. Ma con approdi insperati. Di emozione. E risvegli, alla luce che filtra nella tenda. È l'alba e sei chiamato dalla vita, da Dio, a ripartire. Ogni mattina chiamati a ripartire.
Il mio amico, arrivato alla firma della mamma e ai colori della bambina, ultimo fotogramma della lettera, mi direbbe: "Se le vedi, quando le vedi, dà loro un bacio per me".
Le emozioni - penso ci si accorga da come ne scrivo - sono tante. Ora ne vorrei isolare una, che mi saliva alla gola leggendo.
Mi si illuminava, mi si illuminava dentro una parola che sempre ho ascoltato e patito con un certo sospetto, la parola "tradizione".
La parola nel tempo si è consumata, usurata. Per come è stata brandita e per come oggi stesso viene brandita, quasi fosse una clava. Spesso evoca in noi ciò che è fermo, ciò che è confinato, tant'è che coloro che la brandiscono a ogni piè sospinto come clava, i cosiddetti "tradizionalisti", hanno l'aria ferma dell'immobilità, gente da presidio, non razza di traghettatori.
L'appello alla tradizione come a un deposito fermo, immobile, ha depauperato di bellezza e incanto la parola "tradizione" che viene dal latino e che non è immobile: parla di un desiderio, abbraccia l'atto di "consegnare", è movimento. Tradizione è la consegna, è il passaggio da mani ad altre, è la speranza messa in mani altre, altre dalle nostre, in vie altre, altre dalle nostre.
Chi è fermo al passato, non sa consegnare, ha paura delle mani, consegna scatole chiuse che hanno un solo colore, quello della paura, devono stare sigillate.
La domanda potrebbe essere: che cosa consegnare? come consegnare?
Che cosa consegnare ai figli, alle generazioni future? Da più parti sorgono voci inquiete a dire che stiamo consegnando ai figli cose, solo cose o quasi solo cose. Basteranno le cose al loro cammino? E sono, le cose, il meglio di noi stessi, il meglio che abbiamo?
Che cosa consegnava nella casa il padre della lettera, che cosa consegnava nella penombra della stanza la nonna materna? Non erano cose. Era la luce. Luce aperta. Per molti di noi il desiderio è di consegnare Gesù. "Io" - diceva - "sono la luce del mondo".
Il futuro del cristianesimo sta nel ritorno a questa consegna essenziale. Non paludamenti, non assetti dottrinali spenti, non il legalismo delle norme, ma Gesù il vivente. E se è vivente non è immobile. Non una parola vuota, non un fantasma. Sulle labbra dei cattivi difensori della tradizione Gesù è diventato un nome, è diventato un fantasma.
Gesù persino nei racconti della risurrezione, si oppone con fermezza a questa sua riduzione a "fantasma". A "spirito": dice il testo greco. "Guardate le mie mani e i miei piedi".
Vorrei dirvi che mi prende il cuore questa insistenza di Gesù: "Guardate le mie mani e i miei piedi".
Che brutto - pensate - se la risurrezione, se la sua vita di risorto, avesse cancellato le mani e i piedi. Gesù è stato anche mani, mani che toccavano, toccavano i lebbrosi, toccavano gli occhi dei ciechi, toccavano la bambina dodicenne morta. I suoi piedi si erano caricati di sabbie, sabbie di cammino, lui, l'uomo che cammina. E poi c'era il segno dei chiodi, il segno della lancia nel costato.
Che perdita - pensate - se, in forza della risurrezione, Gesù fosse diventato un vivente dimezzato, uno spirito senza storia, una storia che aveva toccato la sua carne! Lui, Dio l'aveva raccontato con il suo corpo. Anche con il suo corpo.
In questo rifiuto di Gesù a essere ridotto a uno spirito, a un fantasma, mi sembra di leggere anche un altro avvertimento, l'avvertimento a stare in guardia dal pericolo di un Gesù evanescente, evanescente come uno spirito, ridotto a un nome, un puro nome. E si difende un nome! No! Gesù è tutt'uno con i suoi pensieri, con i suoi amori, con le sue scelte. Difendere lui vuol dire difendere quei pensieri, quegli amori, quelle scelte. Altrimenti è un fantasma.
Guardare il segno dei chiodi significa ricordare, come dice Enzo Bianchi, per che cosa è avvenuta quella morte, perché Gesù fu ucciso. Perché? Perché aveva messo in guardia da una osservanza della legge che non era fedeltà all'anima vera della legge, perché aveva abbattuto i muri di divisione eretti dagli uomini in nome di Dio, perché aveva proclamato che l'uomo viene prima del sabato, prima delle osservanze religiose, perché la sua predicazione suonava come un attacco agli uomini religiosi del suo tempo. La sua interpretazione della religione, sì la sua interpretazione della religione l'aveva condotto alla morte.
E quando guardiamo a Gesù non possiamo non guardare a tutto questo. Quando difendiamo Gesù non possiamo non difendere quello che lui ha difeso. Quando dichiariamo di volerlo seguire, non possiamo cancellare quello che lui ha amato, difeso, inseguito. Inseguito come un sogno, un sogno che nella sua vita divenne carne e corpo da toccare.
Gli appassionati, i veri appassionati della tradizione, difendono un vivente. Al contrario quelli che presidiano il passato hanno imbalsamato il vivente in un sepolcro. Così facendo hanno interrotto il passaggio, la vera tradizione, hanno interrotto la consegna.
A fronte di lettere dove tocchi con mano le storie in cammino, l'emozione dello Spirito che le conduce, ti capita a volte di leggere altre lettere, poche per grazia, dove non c'è cammino, c'è stagnazione. Ti manca l'aria, l'aria aperta e trasparente del giardino, del giardino della risurrezione. E Gesù leggero, quasi a prendersi gioco di coloro che da nemici lo volevano presidiare, lui a scompigliare i sogni degli amici che lo volevano trattenere, trattenere in una sola immagine.
I veri traghettatori sanno che più pesante è il traghetto, più arduo sarà l'approdo nei territori del nostro tempo.
I veri traghettatori sanno anche che portano una parola folle, quella del loro maestro, una parola fuori paese, se il paese è misurato dai venditori e dalle merci, se i numeri contano più della verità e il successo più della dignità.
Sanno di traghettare una parola folle e sanno anche che le parole folli non amano i declamatori, ma uomini e donne che le lasciano scorrere come linfa buona nelle loro vene. Senza la pretesa di sapere dove il vento li condurrà.
Traghettano una parola folle, quella del loro maestro. Ma sanno anche che, come scrive Christian Bobin, non ci sono alternative tra una parola folle e una parola vana. E dunque una parola folle!

don Angelo


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