"ASPETTATEVI
GLI UNI GLI ALTRI"
È sera di aprile. Il calendario dice: 18 aprile,
ore 21, Consiglio Pastorale Parrocchiale.
È tardi. Interrompi, chiedendo scusa, la telefonata.
Hai il compito -per te quasi sacro- di aprire la porta.
La porta aperta è un segno. Come segno sono le luci
della sala che si accendono al primo piano. Segno d'una
comunità che non è ancora nel sonno.
Che la porta sia aperta. Nessun campanello da suonare, come
se le chiavi le avessi tu.
È sera di aprile. La porta che sbatte con un certo
puntiglio, sembra segnalare da lontano l'arrivo ora dell'uno,
ora dell'altro. Ora la sala è allegra. Questo è
un Consiglio Pastorale giovane. Giovane in tutti i sensi,
inesperto delle astuzie clericali, della macchina organizzativa.
Li guardo a uno a uno. Ti sono cari come i tuoi occhi. Potrebbero
essere i tuoi occhi. Occhi di aiuto ai tuoi già un
poco spenti. La preghiera è che gli occhi -i loro-
guardino lontano.
La preghiera è per la pace, perché gli uomini
di una parte e dell'altra guardino lontano, fuori dalle
miopie che accorciano la visione. Soprattutto guardino il
futuro, il desiderio di futuro negli occhi dei bambini dell'altro.
E poi venne il Consiglio: i volti, le parole, i silenzi,
i sogni, le distanze.
Ora la sala è vuota, la facciata della casa è
spenta, sembra dormire nella notte.
Quando chiudi la porta, chiedi cosa ti è rimasto
dentro. Sì, perché le cose vere sono quelle
che accadono dentro.
Di
questa sera di aprile -lo confesso- mi è rimasta
dentro una proposta fuori coro. Che sia il Consiglio Pastorale
un po' fuori coro come me?
Si trattava di scegliere dodici persone, tante ce ne erano
state assegnate, per la veglia di Pentecoste al Filaforum
di Assago, una veglia che ha il sapore della festa per un
Cardinale prossimo a lasciarci.
In occasioni come queste tutti sono soliti sgomitare per
essere scelti.
Proposta stravagante di un Consiglio Pastorale fuori coro:
è giusto che noi ci tiriamo indietro e facciamo posto
a coloro che nella comunità hanno avuto meno di noi
la fortuna di accostare l'Arcivescovo, e a coloro che nella
comunità portano pesi maggiori dei nostri. Lasciamo
il posto ad altri.
La proposta era stravagante. Mi chiedevo quanti altri Consigli
Pastorali della nostra diocesi sarebbero andati in quella
direzione. Tu dirai che mi basta poco, ma mi sono sentito
fiero e un poco anche orgoglioso del nostro Consiglio Pastorale.
Era come se "consigliasse" nella direzione del
Vangelo e, questo, dentro una società che nelle sue
manifestazioni più corpose non sembra segnata dall'anelito
di "lasciare un posto" agli altri, bensì
dalla frenesia di sopravanzarli.
Sempre più raro è oggi trovare ragazzi che
su un mezzo pubblico lascino il posto. Forse non è
più nei loro occhi, non è più nel costume,
la società insegna altro. E i loro occhi sembrano
tristemente vuoti. Sono vuoti gli occhi quando non c'è
più posto per i deboli, per coloro che non reggono
la corsa, per coloro che faticano a stare in piedi.
La
mente mi corre a un brano -non è fra i più
conosciuti- del Vangelo di Giovanni, un episodio in cui
Gesù sembra spezzare la logica dello "scavalcamento".
È emozionante leggere di Gesù e dei suoi occhi
che in un giorno di festa vanno a scoprire chi, se non colui
che rimane sempre indietro? Rompendo la logica del chi arriva
prima meglio si accomoda.
Ecco il brano del capitolo quinto di Giovanni:
"Vi fu poi una festa per i giudei e Gesù salì
a Gerusalemme. V'è a Gerusalemme, presso la porta
delle Pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzata,
con cinque portici sotto i quali giaceva un gran numero
di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Si trovava là
un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo
disteso e sapendo che da molto tempo stava così,
gli disse: "Vuoi guarire?". Gli rispose il malato:
"Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina
quando l'acqua si alza. Mentre infatti sto per andarvi,
qualche altro scende prima di me". Gesù gli
disse: "Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina".
E sull'istante quell'uomo guarì e, preso il suo lettuccio,
cominciò a camminare" (5, 1-9).
Gesù, osservatore infaticabile, legge negli occhi
dell'uomo, presso la porta delle Pecore, non solo il peso
di trentotto anni di malattia che lo faceva disteso, ma
anche la sofferenza di essere ributtato sempre indietro,
ferito ogni giorno nella speranza da qualcuno che scendeva
nell'acqua prima di lui.
"Chi prima arriva meglio si accomoda": dice un
vecchio proverbio. Ma sembra che Gesù voglia spezzare
certi nostri vecchi proverbi, ancora ampiamente praticati
purtroppo.
Questa
logica del "chi prima arriva meglio si accomoda"
può entrare di soppiatto indisturbata -sorda cioè
al disturbo del Vangelo- perfino nella chiesa, perfino nelle
nostre celebrazioni eucaristiche, dove ci si può
paradossalmente riunire nel Signore, cancellando dall'orizzonte
coloro che nella loro vita, pagando una fatica maggiore,
arrivano sempre in ritardo. In ritardo su una vita che possa
dirsi minimamente umana, in ritardo sulla salute, sui soldi,
sull'istruzione, sulla casa, sull'amore, sull'amicizia.
S. Paolo non aveva paura di mettere a nudo impietosamente
questa logica antievangelica nelle comunità che visitava,
in quella di Corinto per esempio, monito duro. Fino a dire:
Voi celebrate l'eucaristia, ma il vostro non è celebrare
la cena del Signore. Voi mangiate e bevete senza riconoscere
il corpo del Signore, mangiate e bevete senza capire.
E questo perché? Perché a Corinto quelli che
stavano bene, quelli che non dovevano aspettare la fine
di una giornata pesante per andare alla liturgia, arrivavano
prima e mangiavano senza aspettare gli altri. E gli altri,
in ritardo per il peso della vita, rimanevano con l'urlo
della fame in corpo.
"Aspettatevi gli uni gli altri" scrive Paolo ai
cristiani di Corinto. Quando vi radunate per la cena, aspettatevi
gli uni gli altri. Non accettate la logica del "chi
prima arriva meglio si accomoda". Così finisce
che ci si appropria di tutto, e alcuni mangiano e altri
hanno fame.
Suggestivo, ma anche disatteso, questo verbo di Paolo: "Aspettatevi
gli uni gli altri". Pensando questo verbo mi verrebbe
spontaneo immaginare che i cristiani dovresti trovarli fra
coloro che sanno aspettare i più affaticati, tra
coloro che non accettano un mondo dove alcuni mangiano e
altri no.
Ma oggi dove li trovi i cristiani? Su quali posizioni? Eppure
mangiano alla cena del Signore. Mangiano e forse accettano
la legge spietata della concorrenza: chi arriva arriva;
gli altri peggio per loro.
Gesù alla porta delle Pecore ha spezzato questa logica
disumana. Ma noi non abbiamo i suoi occhi. Vediamo e passiamo
oltre. Oppure ci lasciamo abbagliare dalla lucentezza delle
proposte e non ci interroghiamo sul costo, sul loro costo
in termini di umanità.
Dio ci ha dato intelligenza e fantasia per innovare, ma
ci ha dato anche sapienza per capire, sensibilità
per intuire.
Un
richiamo forte, come di chi conosce i volti, la voce e vede
le fatiche del suo popolo, è venuto dal nostro Cardinale
in questi giorni. La sua omelia alla veglia diocesana dei
lavoratori ha messo a nudo, come Gesù, la logica
dello scavalcamento, che può sedurre anche il mondo
del lavoro.
Dopo aver ricordato che intelligenza e progettualità
sono elementi indispensabili per un lavoro più umano,
aggiungeva:
"Se ne deduce che oggi il lavoro richiede persone intelligenti,
intuitive, adattabili, sempre giovani e scattanti, sempre
aggiornate e vivaci. Ma qui appare anche il rovescio della
medaglia. Non è sempre possibile reggere alle esigenze
continuamente nuove, mantenersi perennemente giovani e tenere
il passo. Non di rado mancano le forze, il tempo, l'intelligenza
e le competenze sufficienti. Vengono così ad essere
penalizzate le esigenze di sicurezza e serenità.
Purtroppo, e lo sento incontrando i lavoratori, la realtà
entro cui voi lavorate, diventa spesso luogo di disagio
e di incertezza. Emerge persino una concorrenza deleteria
tra gli stessi lavoratori, non tanto in competizione per
una carriera, ma in competizione per mantenere il posto
di lavoro in azienda, uno a scapito dell'altro.
Nel frattempo si registra la difficoltà ad entrare
nel mondo del lavoro per alcune categorie di persone (gli
ultraquarantenni, le donne, le persone meno qualificate),
e nello stesso tempo si assiste all'aumento degli straordinari.
Sono messi in forse i giorni festivi, e ancor più
i rapporti familiari e la propria autonomia. Spesso si richiede
una dedizione così totale e monopolizzante al lavoro
che la si potrebbe catalogare sotto l'elenco delle idolatrie
deprecate dalla Scrittura".
Più avanti l'Arcivescovo aggiungerà: "Sento
parlare di ritmi e turni di lavoro faticosi e stressanti,
di famiglie che devono sostenere avvicendamenti di lavoro
nella coppia per cui, a volte, non riescono neppure a vedersi
per alcuni giorni, di precarietà di lavori a tempo
determinato che coprono le esigenze dell'oggi ma lasciano
sempre l'affanno del domani".
In un'epoca di "venditori" è dono, dono
incommensurabile, avere pastori che si perdono nel volto
della gente, quella comune e scovano, pulita la parola del
Vangelo.
E
ritorni a sognare. Ritorni a lavorare nella città,
nella città degli uomini, disegnando spazi per i
verbi nuovi della Scrittura: lasciare il posto ad altri
meno fortunati, aspettarsi gli uni gli altri.
Forse la rovina della città trova qui la sua ragione:
questa non è più la città dove ci si
aspetta, questa non è più la città
dove ci si mette al passo di chi è affaticato. È
una città che sgomita e a volte non guarda nemmeno
in volto chi sta superando. Non vede più volti, vede
miraggi lontani.
Rallentiamo la nostra corsa. E se non ci è possibile
sempre, se questa grazia non ci è ancora consentita,
teniamo almeno di tanto in tanto il passo dei bambini. Non
è forse vero che oggi anche i nostri bambini sono
costretti al passo affannato degli adulti? E siamo così
sicuri che prima o poi non ne paghino il delirio?
Ritorniamo al passo dei bambini, rallentiamo il passo. Scopriremo
alberi, piazze, volti, i germogli della primavera, le luci
nella notte, il pulsare delle vene su un viso, la tristezza
di un volto, il trasalire dei corpi, il brivido di Dio,
gli sguardi che accarezzano.
E saremo uomini, saremo donne. Saremo secondo il Vangelo
di Gesù, lui che, alla porta delle Pecore, in un
giorno di festa, guardò con amore l'uomo malato da
trentott'anni, ogni giorno scavalcato nel risanamento da
qualcuno.
E fu festa, finalmente vera. La festa era finalmente negli
occhi di un uomo che da un'eternità giaceva alla
porta delle Pecore.
Gli occhi di Gesù erano una festa.
don
Angelo
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