articoli di d. Angelo


 

Vi racconto un dolore che fu di tutto un popolo

Lo confesso, per debito di sincerità, a cuore aperto, davanti a tutti, senza mascheramenti d'ipocrisia. Mentre quest'anno leggevo il vangelo della nascita, mi si mescolavano in cuore canzoni e lamenti. Mescola strana, al limite dell'incredibile, ma vera: canzoni e lamenti. Al cuore ritornavano le parole del salmo che denunciavano crudamente, in tempi di esilio, un paradosso. E come potremmo - chiedevano gli ebrei esuli - dare sfogo ai nostri canti in terra di esilio? Ai salici stanno appese senza fiato spente le nostre cetre. Non ero giunto a tanto. Ma forse vicino. Al punto di pensarlo.

Nella chiesa illuminata e fiorita la pagina del vangelo invitava al canto, l'invito sembrava piovere ancora, dall'alto di una cupola, da un volo invisibile di angeli: "Ecco vi racconto una gioia che sarà di tutto il popolo". E io uno di questo popolo in gioia, gioia non di pochi, ma di moltitudine. E come non cantare per la vita di un Dio mescolata alla vita dell'uomo? Mescola sacra! Bisognava cantare. Come non cantare l'inaudito di Dio?
Eppure nel cuore avveniva un'altra, dolorosa, mescola, una di quelle strane mescole che ti fanno cantare e, insieme, appendere cetre ai salici, chini per oppressione, ai salici del pianto. E mentre gli angeli dalle pagine raccontavano una gioia con recapito di un popolo, io sentivo che avrei dovuto raccontare un dolore che forse non era di tutto il popolo, ma di tanti sì, di tanti che fanno il popolo dei credenti, di tanti che leggono questo foglio.
Un popolo, o tanti, che cantavano l'inaudito della mescola di Dio, ma nello stesso tempo non riuscivano a staccare dagli occhi, sfondamento di cuore, l'immagine di una piazza gremita per un funerale e la porta chiusa, severa, inaccessibile di una chiesa. Inaudito per il vangelo, la porta chiusa. A sfondamento di cuore. Inaudito per uno che ha sempre sognato che la chiesa fosse una porta sulla piazza: sospingi, apri, entri, segno dell'accoglienza incondizionata, l'accoglienza incondizionata del tuo Signore. Mi piangeva il cuore.
Guardavo la piazza, guardavo la porta. Poi mi ritrovai a guardare il cielo, interrogavo il cielo. Era chiuso, era aperto? E il pensiero corse al giorno in cui si aprirono i cieli su una striscia di terra e su una sponda di fiume chiamato Giordano. Fu all'incirca duemila anni fa. Quel giorno si aprirono i cieli. Quasi a dire che c'era qualcosa di una bellezza infinita da guardare, c'era da incantarsi, si incantarono i cieli. Quel giorno. Che cosa c'era di così bello da squarciare i cieli, da incantarli a guardare? C'era, narrano i vangeli, il Figlio dell'uomo, il rabbì di Nazaret, confuso nella fila con i peccatori a farsi battezzare. Nelle acque con loro. Nessuna distinzione, nessuna distanza. Con quella scena degli inizi lui diede i connotati della sua missione. "Non sono venuto per i giusti", lo sentirono dire più avanti "ma per i peccatori." E lo diceva in serrata aperta polemica con i rappresentanti dell'ortodossia religiosa, che lo avrebbero voluto tra coloro che chiudono le porte. Mentre lui, fedele all'immagine degli inizi, era una porta aperta: mangiava e beveva con i pubblicani e i peccatori. E mi si affollavano pagine e pagine di vangelo, fino alla penultima, fino a quel suo morire tra due ladroni, uno di qua e uno di là, e al suo canonizzarne uno, unica canonizzazione sicura della storia, sicura come sicuro è lui: "Oggi sarai con me in paradiso". Mescolato anche alla fine.
Guardavo la piazza, guardavo la porta, chiusa, guardavo i cieli. E per un attimo, attimo di grazia, mi parve che si aprissero. I cieli squarciati a guardare, ancora una volta, lui, Gesù di Nazaret, mescolato con quella umanità di nomadi, nomadi dello spirito e peccatori, che facevano quella piazza. Una moltitudine, e non uno solo, di nomadi e di peccatori. E io con loro, come loro. E chi poteva mai tirarsi fuori, chi di coloro che ancora leggono il vangelo e leggono il proprio cuore? Chi non appartiene, ditemelo voi, chi non appartiene a questa razza di nomadi e di peccatori? E lui mescolato, lui il rabbi di Nazaret. E il cielo guardava. Ancora una volta si incantava. Stavo sognando o era realtà?
Ma poi gli occhi tornarono alla porta chiusa. Mi sembrava un muro. Avevo appena finito di scrivere, per una rivista, di ponti e di muri. Il muro è duro, immobile, rimane fermo. È gelido, puoi sbattervi il capo e ferirti. Ti respinge. È l'esclusione. I muri ti gridano l'estraneità. Hanno nelle loro fessurazioni un urlo di disumanità: "Tu fuori!". Solo una porta può ingentilire un muro e salvarlo. Perché è una ferita nella durezza. Ma se è porta chiusa, sbarrata, fa tutt'uno con il muro, con la sua durezza e immobilità. Preclude ogni andare e ogni venire.
Come fare perché in avvenire la porta non sia chiusa, sorda, inaccessibile? Ritornando a leggere il vangelo, sine glossa, cioè così come suona, con la musica di quella storia concreta, indimenticabile, perché in quella storia di Gesù di Nazaret, non nella freddezza delle elucubrazioni, si è raccontato Dio. Fedeli a quella scrittura ci capiterà meno di chiudere le porte. E se mai le chiudessimo, ci capiterà, a salvezza, di chiederne, a Dio e a tutti, perdono e di riaprirle.
Come fare perché in avvenire la porta non sia chiusa, sorda, inaccessibile? Ascoltando il popolo di Dio, che, in una occasione come questa, mi è parso più avanti, e non per relativismo, ma per fedeltà al vangelo. Ho visto tracce di sofferenza nei credenti, l'ho percepita negli occhi sgomenti di tanti, l'ho letta in messaggi tristi che mi sono stati indirizzati. Ascoltando il popolo di Dio e il magistero dello Spirito che lo abita. Che abita i piccoli in modo particolare. Al dire di Gesù. E alla mente mi corre il volto di un bambino che in una delle sere che vegliavano il Natale al papà e alla mamma disse: "Sì, mettiamo anche Welby nel nostro presepio!". I bambini mille anni luce in anticipo su spazi di chiesa - non tutta per grazia! - in ritardo, in ritardo di misericordia.
Come fare perché in avvenire la porta non sia chiusa, sorda, inaccessibile? Frequentando, abitando le case di questa umanità. Penso con commozione a chi si è fatto compagno di viaggio per anni di un uomo di cui tanti di noi hanno conosciuto il volto solo attraverso il mezzo televisivo. E come se ne sarebbe potuto parlare se non avendo in qualche misura tentato di entrare nel suo mondo interiore, oltre il confine di quegli occhi che erano lago di sentimenti e di pensieri, di sofferenze e di drammi? Che cosa puoi dire se non hai abitato? Dio - ce lo ha ricordato il Natale, se lo abbiamo celebrato in verità - si è fatto carne. Non sta nelle parole senza carne, nelle parole di coloro che predicano, ad occhi asciutti dai palazzi, senza aver abitato la tenda di carne di questa umanità. Parliamo, o forse meglio, sogniamo una chiesa madre. Ma come potremmo dimenticare che madre dice grembo e grembo dice calore? Offri a Dio e all'umanità il calore di un grembo. Dio, se non c'è questo calore, se non c'è questo essere grembo, se ne va. Lontano. Perché Dio è lui stesso - e ce lo ricorda la Bibbia - grembo. Lui ha viscere di maternità e di misericordia. E se la chiesa anela a rispecchiarlo deve essere chiesa-grembo, dunque madre e non matrigna. Matrigna si diventa, ed è disavventura, in assenza di calore di grembo.
Come fare perché in avvenire la porta non sia chiusa, sorda, inaccessibile? Esplorando i territori dell'altro, rifuggendo da ogni pregiudizio, dalla pretesa di tutto sapere. In una intervista che ha suscitato clamore, alcuni mesi fa, il Card. Martini parlava di zone grigie che attendono di essere esplorate e interrogate con onestà intellettuale. Diceva: "Là dove per il progresso della scienza e della tecnica si creano zone di frontiera o zone grigie, dove non è subito evidente quale sia il vero bene dell'uomo e della donna, sia di questo singolo sia dell'umanità intera, è buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni".
Le porte si chiudono, quando la verità e la sincerità della ricerca sono appannaggio di alcuni e il mondo dell'altro a priori è paese di falsità e mistificazioni: il caso è chiuso, la porta è chiusa. In una vigilia di Natale, che ci ha visti come credenti raccontare la gioia e insieme appendere ai salici le cetre, due carissimi amici mi fecero scivolare tra le mani alcune intenzioni di preghiera. Negli spazi bianchi tra una parola e l'altra c'era un'eco struggente di pianto. Le prime righe pregavano perché gli accanimenti di ogni tipo lasciassero il posto a spazi di confronto caritatevole e rispettoso sui temi della vita e della morte. Come non capire che stiamo entrando in territori inesplorati, dove non è consentita alcuna spavalda presunzione, dove tutti, credenti e non credenti, siamo chiamati a chinarci non su parole o su tesi, ma su creature vive e pensanti? Ci è negata, dalla coscienza e da Dio, ogni sorta di rozzezza dell'intelligenza e dello spirito. E l'accesso non è per gli addetti ai lavori, è per coloro che nel drammi dell'umanità non si permetterebbero mai di entrare se non in punta di piedi, rispettosi come sono della sacralità intangibile di ogni coscienza.
Scriveva molti e molti anni fa Bernhard Haring, esploratore indimenticato dei territori dell'etica umana e cristiana: "La parola coscienza(syn eidesis) significa imparare assieme, conoscere il bene con gli altri, crescere assieme nell'arte di discernere. Chi pretende di insegnare senza ascoltare, senza imparare dagli altri, senza crescere nel confronto con gli altri, pecca gravemente di presunzione: ha rovesciato la sua coscienza, perché pensa di conoscere tutto mentre ha perso tutto; non accettando le critiche e non stando attento alla vita, danneggia la propria coscienza e la comunità".
Parole a memoria. Perché più non ci succeda, in giorni di gioia, di appendere cetre ai salici della nostra tristezza.

don Angelo


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