METTI
A DIMORA IL SEME
Ora ne scrivo. Ed è tradimento. Di una consegna,
di una promessa fatta a me stesso, e forse anche di un desiderio,
la consegna, la promessa, il desiderio del silenzio. E forse
sono voce al di fuori del coro. Fuori dal coro esibito,
ma forse dentro il coro di non pochi credenti e non credenti.
Il morire del Papa, a mio avviso, è stato in qualche
misura, mi si perdoni la parola, violato, dissacrato, defraudato.
Siamo stati per giorni seppelliti da parole e immagini.
Una sull'altra. Una ad esilio dell'altra. In successione
frenetica, dilagante.
Ed erano giorni di accompagnamento. E quale accompagnamento!
I giorni invocavano silenzio. Silenzio e ingresso nell'anima.
Siamo finiti sulla piazza. Parola, questa, che non evoca
in prima istanza le piazze delle città, ma un essere
fuori luogo, fuori del luogo che accompagna il mistero,
fuori del luogo decisivo, quello dell'interiorità.
Dovevano essere i giorni di un affettuoso accompagnamento
di un Papa amato, indebolito, consumato, nel suo ultimo,
il più difficile, ma anche il più affascinante
viaggio.
Per questo a molti di noi è successo di desiderare,
forse come non mai, da impenitenti sognatori, il silenzio.
E di ricercare il luogo in cui Gesù invita i suoi
discepoli, in pagine ormai dimenticate del suo vangelo,
il luogo della segretezza. Lui a mettere in guardia dalla
preghiera esibita sulle piazze. Lui ad ammonire: "tu
invece quando preghi, entra nella tua camera, e, chiusa
la porta, prega il Padre tuo nel segreto e il Padre tuo
che vede nel segreto ti ricompenserà" (Mt 6,6).
Chiudi la porta, chiudi la piazza, chiudi i tempi dell'esteriorità.
Erano per tutti noi giorni di tenera sacra attesa. Della
morte o di altro? Nella memoria la parola del libro della
Lamentazioni: "È buona cosa aspettare in silenzio
la salvezza del Signore".
La salvezza pronta a rivelarsi negli ultimi tempi, come
scrive l'apostolo Pietro, stava per svelarsi agli occhi
di un Papa che l'aveva insonnemente cercata. Per lui quell'ora
era l'"ultimo tempo". E come non sostare in silenzio,
come non zittire parole e rumori e quasi trattenere il fiato,
pur di percepire i passi della salvezza? I passi attesi
del suo Signore, attesi nella notte a fiaccole accese, resistenti
ad ogni vento.
Un silenzio da ricercare anche come condizione di fecondità
per chi crede che ogni creatura porti l'immagine e l'avventura
del seme. E Papa Giovanni Paolo II fu seme. Per questa chiesa
e per l'umanità. E come ogni seme ha bisogno del
silenzio della terra e non delle chiacchiere umane: troppe
ne abbiamo ascoltate in questi giorni. Ha bisogno dell'invisibilità
della terra, non dell'esibizione: di troppe sovraesposizioni
siamo stati fatti spettatori in questi giorni. Ha bisogno
del silenzio della terra del nostro cuore per vivere e crescere.
È condizione per una fecondità. Non basta
poco terriccio. il sole può bruciare il seme in un
giorno.
Fu così che, la sera in cui ci radunammo in preghiera
per Papa Giovanni Paolo, mi sentii di confessare che avrei
desiderato sedere fra tutti e tacere. Avrei voluto proporre
un esercizio dello spirito, che penso abbia valore anche
oggi: che ognuno, non nei salotti o sulle piazze, ma nell'intimo
più intimo si chieda quale immagine del Papa lo abbia
più toccato e quali mutamenti abbia generato nella
sua vita. Basta un'ombra. Così come bastava un giorno
l'ombra di Pietro: chi ne era coperto guariva. Metti a dimora
nel cuore il seme. Metti il tuo lettuccio là dove
passa la sua ombra, l'ombra di un Papa.
È sempre in agguato il pericolo, e questi giorni
non furono risparmiati, che, sedotti dalla frenesia di celebrare,
ci ritroviamo sulle labbra, quasi senza avvedercene, le
parole - solo le parole? - della mondanità. Ci capitò
in questi giorni, e fu uno sgranare di occhi, di ritrovarle
pari pari sui quotidiani dei credenti.
"Il vuoto più grande" titola il giornale.
E ti chiedi se lui è assente o presente. È
passato dunque invano, lasciando il vuoto? Non ci sono segni
del passaggio? Misuriamo il vuoto? O dovremo ascoltare qualche
volta le parole dei non credenti?
Giorni fa mi capitò di sussultare quando Chiara,
un amica, a un funerale di un amico comune lesse una poesia
di Primo Levi. Non si grida al vuoto: "in ognuno le
tracce di ognuno". Il vuoto, il grande vuoto? O le
tracce, le luminose tracce?
Cari
amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d'un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L'anima, l'animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s'indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l'impronta
Dell'amico incontrato per via:
In ognuno la traccia di ognuno,
Per il bene e per il male,
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite
A voi tutti l'augurio sommesso
Che l'autunno sia lungo e mite.
Primo
Levi, 16 dicembre 1985
Dedicata
agli amici conosciuti tra i banchi di scuola, nei lager
o passeggiando in Val di Lanzo.
Altra
parola, ampiamente declamata in questi giorni, attribuita
all'avventura umana di Papa Giovanni Paolo fu l'aggettivo
"grande". Ma celebrarlo tra i grandi è
onorare la sua immagine più vera? Non è operazione
a rischio di fraintendimento? Di fraintendimento della sua
missione e del vangelo che è critica radicale ai
modelli mondani della grandezza? Avrebbe Gesù sopportato
che si facesse vuota la basilica di S. Pietro per far posto
alla visita dei grandi? L'avrebbe desiderato un Papa che
ha toccato le terre dei piccoli?
Grande o piccolo? Dopo giorni e giorni a celebrare la grandezza
su moduli mondani apri una volontà e trovi scritto:
seppellitemi nella nuda terra. Come un seme, piccolo chicco
di grano caduto nella terra, a promessa di risurrezione.
Celebrare la grandezza o celebrare la piccolezza evangelica
di un Papa? Segnato nella sua missione, come tutti gli umani
- e dovremo riconoscerlo - da limiti e fragilità.
Nessuno di noi può oggi rimuovere la memoria di un
lontano attentato, la chiazza rossa sulla veste bianca.
Ma la memoria di un Papa può subire altri più
silenziosi attentati. "E nessuno che parli di Gesù":
osservava in questi giorni un amico. Non era l'unicum della
sua vita, la passione che l'aveva consumato? La passione
oscurata dai riflettori, che lui, il Papa, fin dal suo primo
giorno di pontificato, avrebbe voluto fossero su Gesù.
Oggi i riflettori sono sui suoi grandi viaggi. Ed è
bene forse che lo siano. Ma tutto nasceva in lui da un altro
grande viaggio, ancora una volta invisibile, meno ricordato,
un viaggio dello spirito.
Lui ci ha raccontato quasi visivamente che la vita è
il grande viaggio e ha saputo raccontare la direzione del
viaggio e, insieme l'approdo del grande viaggio, quello
della vita.
All'inizio del suo viaggio, come all'inizio del viaggio
della donna di Nazaret, Maria che ha teneramente amato,
all'inizio e alla fine, sta una piccola parola, grande parola:
"Eccomi, vengo per fare la tua volontà".
Parola che dice la disponibilità senza riserve, incondizionata,
l'immediatezza del cuore: "eccomi". Parola che
dice anche la direzione, dove guardo: "Guardo a te,
Signore".
Ognuno, e forse è giusto, più che legittimo,
si porta in cuore immagini del Papa che in questi lunghi
anni ci ha accompagnato. Ma c'è un'immagine, che
penso non sia l'ultima, penso sia alla radice di tutte,
quella dei suoi occhi che sembrano guardare dentro, quasi
a svelare dove era fisso lo sguardo dell'anima. Ci sono
fotogrammi che sorprendono questo sguardo meno esibito,
più interiore, il roveto che arde dentro e non consuma:
il suo "eccomi". A Dio e all'umanità. Inscindibilmente.
Instancabilmente.
Sono occhi che mi hanno richiamato alla memoria un brano
di Erri De Loca sul mestiere di pastore.
"Pastore non è chi manda al pascolo, ma chi
esce davanti a esso e lo fa venire dove lui va. Sa scegliere
le direzioni, procede sulla terra secondo le istruzioni
del cielo, che siano stelle o lune, come capita a tutti
loro, o che sia una colonna di fuoco di notte e un tappeto
di nuvole di giorno come succede a Mosè e a nessun
altro. Il pastore marcia con gli occhi al cielo e così
stringe il nodo provvisorio tra la terra e l'infinito spazio
in cui si aggira".
Con gli occhi al gregge. E al cielo, oggi suo approdo: "Eccomi,
Signore".
Non so perché, o forse lo so, lo intravedo, mi hanno
accompagnato insistentemente in questi giorni le parole
incancellate di una ragazza che anni fa era venuta a dirmi
che suo padre era morto. Ricordo che si commosse nel raccontarmi
le sue ultime ore quando mi disse: "Sai, don Angelo,
eravamo in clinica e ho chiesto all'infermiera se secondo
lei mio padre ancora percepisse parole e gesti. Mi rispose
che secondo lei i morenti ancora percepiscono. Allora ho
ripreso forza e ho detto: "Papà, guarda che
alla mamma ci pensiamo noi due, io e Andrea. Non preoccuparti".
E il papà è subito spirato. Come se aspettasse
che gli dicessimo: "Sta tranquillo. Ci pensiamo noi".
E non sarà questo da dire a un Papa che se ne va
per l'ultimo affascinante approdo? Di questa chiesa, di
questa umanità che tu hai teneramente amata, pur
fragili come siamo, ci prenderemo ogni giorno cura noi.
Con le modalità, anche nuove, che lo Spirito e i
segni dei tempi suggeriranno a ciascuno di noi.
don
Angelo
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