articoli di d. Angelo


 

LA CORSA CONTRO IL TEMPO

Mi raccontavi un episodio. Non era -lo sentivo- un episodio qualunque. La ferita era ancora nei tuoi occhi neri.
Storia di una spietatezza, che mi provocava fino alla ribellione. E raccontavi.
Eri tornata in ufficio dopo una visita medica. La preoccupazione ti era salita fino agli occhi, fino a intenerirli di pianto.
Occhi di pianto solitamente toccano anche le pietre. Niente di tutto questo: alla tua richiesta di un permesso di poche ore per un accertamento del problema, la risposta fu che no, non era possibile, non c'era tempo. Le pratiche non potevano aspettare.
A tal punto spietati: tu non esisti. Esiste il lavoro, esistono le pratiche, contano più di te.
Il meccanismo è perverso e ci fa disumani e crudeli. Spietati.

E siamo al paradosso.
Da un lato giornali e televisione ci trasmettono immagini, sempre più frequenti e inquietanti, immagini urlate, di uomini e donne, giovani soprattutto, sull'orlo della disperazione, che invocano possibilità di lavoro: i loro striscioni, le loro bandiere, le loro urla ci accompagnano.
D'altro lato negli occhi abbiamo i volti di uomini e donne segnati da svuotamento e stanchezza, volti di persone costrette a ritmi di lavoro allucinati e allucinanti.
Né sai se questo è il ritmo imposto dalla città o da una città come Milano. Sta il fatto che per un numero sempre più crescente di uomini e donne le ore di lavoro più non si contano e si dilatano fino ad inghiottire gli spazi della sera.

Forse esagerando ti verrebbe spontaneo parlare di nuove schiavitù. E non sai più -questo è grave- chi sia il nuovo faraone.
Ti impressiona la testa china. Come di chi subisce.
Non ci sono aguzzini visibili. Forse sto esagerando, ma anche questo fiume di persone che entrano e fuoriescono dalle metropolitane ogni giorno, per l'espressione vuota che abita i volti, sembra fiumana di gente teleguidata, schiava di nuovi miti e di nuove idolatrie.
Sono le ragioni del lavoro: si dice. E davanti alle ragioni del lavoro non resta che inchinarsi.
Ma se il lavoro ti espropria? Se ti usurpa il tempo di pensare, il tempo di contemplare, il tempo di parlare?
"Non abbiamo più il tempo di parlarci": sento spesso dire.
"Ma quale tempo?": mi chiedeva -la domanda era retorica- un amico, la scorsa domenica sul sagrato, lui medico, la giovane moglie architetto, i loro ritmi di lavoro, la casa... e ancora non ci sono i bambini!
"Ma quale tempo? Dov'è il tempo?".

Mi sento ancora una volta osservatore da strapazzo di fenomeni che vanno al di là, molto al di là delle mie deboli e incerte visioni.
Eppure, te lo confesso, quando vedo i volti stanchi ed espropriati, quando ascolto i racconti di vellutate spietatezze, mi nasce dentro la nostalgia, la voglia, di un profeta. Oggi anche nelle chiese ce ne sono sempre meno.
Sì, di un profeta che osasse, ai crocicchi delle strade, fermare uomini e donne, fermare noi che ogni giorno ossessivamente corriamo.
Sì, osasse fermarci e chiedere: "Ma dove correte? E a quale prezzo? Se vuota e assente è la mente, se vuoto e assente è il cuore, se vuota e assente è la comunicazione, ne vale, ne vale ancora la pena?".
Basterà un profeta? E ci sarà concesso il dono di incontrarlo? Forse non è profezia la Parola che leggiamo la domenica nelle chiese, la Parola di Dio, che troppo ha a cuore la nostra vita per lasciarci andare, espropriati, su strade di svuotamento e di morte di significati?
"Quale vantaggio, se, dopo aver guadagnato il mondo intero, avrai perduto la tua anima?". Quale, se avrai perduto la tua consistenza, il significato di vivere?

Basterà un profeta? Forse no. Forse basterà a provocarci.
Io non so infatti se in tempi brevi la nostra città e la nostra vita ricupereranno ritmi meno accelerati e più umani. Ne dubito. C'è purtroppo chi, a differenza di Dio, ha più a cuore il mercato che l'anima dell'uomo e della donna.
Più ricchi. Poco importa se espropriati.
Quale tempo?: chiedeva l'amico sui gradini della chiesa. E la domanda dal tono scherzoso nascondeva una certa amarezza.
Nasconde -scrive Enzo Bianchi- una, forse inconsapevole, nuova idolatria, idolatria del tempo:
"Una società segnata dalla lotta contro il tempo, dalla corsa contro il tempo, rischia di conculcare le aspirazioni umane nell'ambito del tempo e si configura come società in cui non si ha più tempo. "Non ho tempo": questo il ritornello in bocca a molti uomini oggi; ma poiché è ripetuto anche da molti cristiani questo significa una patologia nel rapporto del credente con il tempo. Patologia che in profondità significa idolatria: non io ordino il tempo, ma il tempo schiavizza me! Il confronto con la Scrittura, che si apre proprio con la rivelazione di Dio, quale Signore che crea e ordina il tempo (Gn 1,1-2, 4a), conduce il credente a discernere questa mondanità e idolatria che lo abita" (Enzo Bianchi, Giorno del Signore giorno dell'uomo, Piemme, pag. 16).

Povero prete di città, amico degli uomini e delle donne del mio tempo, mi interrogo ulteriormente e mi chiedo se, nell'attesa di correzioni strutturali che non saranno a breve tempo, non dovremmo immaginare spazi che salvaguardino in qualche misura la nostra fierezza e la nostra dignità di uomini e donne, il nostro desiderio di intelligenza e di libertà, la nostra passione di restituire alla vita relazioni autentiche e vere, il nostro bisogno di dare senso alla vita, alle cose, allo stesso lavoro.
Immaginare spazi di interiorità nei ritmi quotidiani. Immaginarli e non crederli impossibili può essere la nuova sfida, la sfida posta a ciascuno di noi.
"Oggi, pensando alla nostra vita futura" -dicevano giorni fa due fidanzati, si sposano a giugno- "ci sentiamo più sereni. Quasi senza accorgercene, in questi mesi che precedono il nostro matrimonio, siamo riusciti a salvaguardare, come avevamo deciso, i tempi dell'approfondimento della fede e del matrimonio. Troppo importanti per noi. Per noi è stata esperienza appassionante di un cammino che non scorderemo. Ci ha insegnato che, se una cosa ti sta a cuore, il tempo lo trovi".
Guardavo l'emozione dei loro occhi, più forte di ogni stanchezza: avevano passato il giorno prima a tinteggiare, ore ed ore, la loro nuova casa.
Mi emozionavo, ascoltando Stefano che raccontava come per lui a volte diventasse luogo di interiorità la sala d'aspetto di una stazione o di un aeroporto: proprio in una sala d'aspetto affollata, giorni prima gli era capitato di digitare le parole di benedizione del suo matrimonio e di trasalire a quelle parole.
Mentre ne ascoltavo la voce e guardavo gli occhi di Luisa che lo coprivano, nel cuore mi ritornavano le parole di Madeleine Delbrêl, la sua interiorità, vissuta -per vocazione- sulle strade.
"Se i monasteri appaiono come i luoghi della lode e come i luoghi del silenzio necessari alla lode, nelle strade, schiacciati tra la folla, noi stabiliamo le nostre anime come altrettante cavità di silenzio dove la Parola di Dio può fermarsi e risuonare".
"Nelle strade, sul metrò, in questa folla, cuore contro cuore, schiacciata tra tanti corpi, sul nostro sedile dove tre sconosciuti ci tengono compagnia, nella strada scura, il nostro cuore palpita come un pugno chiuso su un uccellino. Poter percorrere tutte le strade, sedersi in tutti i metrò, salire tutte le scale, portare il Signore dappertutto. E poi pregare, pregare come si prega in mezzo ad altri deserti, pregare per tutta questa gente così vicina a noi e così vicina a Dio... ".

Immaginare spazi, immaginare tempi. Senza arrendersi.
E' venerdì sera, pensi alla settimana "lunga" da cui vengono i fidanzati, sono le ventitrè e quasi non ci siamo accorti.
Per rispetto alla stanchezza di ognuno pensi sia opportuno chiudere l'incontro e poi ti trovi davanti gli occhi di Francesca che ti dice che il suo desiderio sarebbe stato quello di continuare ancora a lungo, perché queste riflessioni la appassionano. Glielo leggi negli occhi.
Immaginare spazi, immaginare tempi. Ognuno i suoi. Senza arrendersi. La sala di una parrocchia o la sala d'aspetto di una stazione o di un aeroporto. O un angolo della casa. La tua.
Immaginare spazi, immaginare tempi. Senza arrendersi. Per non finire espropriati come schiavi. Perché nessuno si ritrovi uomo di successo, donna di successo, ma aridi.
Trovare tempo. Puoi anche dire che non hai tempo in queste sere o in queste mattine di maggio, di dare l'acqua ai gerani, che danno bellezza ai balconi di questa città. Ma conosci il prezzo: li troverai presto irrimediabilmente inariditi. Così la vita.
Ogni sera, ogni mattina guardo con emozione con quanto desiderio la terra nei vasi dei fiori beva l'acqua quasi ne fosse in attesa.
Acqua non inquinata, da roccia durissima, la tua Parola, Signore. Acqua non inquinata, da roccia durissima, gli occhi di Anna, di Luisa e di Stefano, gli occhi di Francesca. Mi insegnano che c'è tempo. Tempo per ogni cosa.

don Angelo


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