articoli di d. Angelo


 

DEDICATO A UNA BAMBINA

Non posso svelare il suo nome.
Ha nove anni e un nome bellissimo, non comune. Anche alla fantasia più accesa non riuscirebbe di immaginarlo.
Penso di non esagerare dicendo che il suo viso e i suoi occhi accompagneranno d'ora in poi, indimenticabili, gli anni o i giorni di ministero che mi rimarranno.

A dire il vero il mio essere prete è già stato segnato dal volto di un'altra bambina. Incancellabilmente.
La città era un'altra, non questa. Una giornata di sole, lungo una strada del quartiere che si inerpicava duramente. Mi guardò con i suoi occhi pieni di interrogazione. Mi disse: "Don Angelo, chi mi parlerà sottovoce di Dio?". Ne parlo ancora, dopo tredici anni.

Sono stato segnato fortunatamente, per grazia, da profeti nella mia vita: da don Primo Mazzolari, quando tra i libri del liceo in Seminario nascondevamo "Adesso", il suo giornale, prima ancora che ne fosse ordinata la sospensione dall'autorità ecclesiastica; segnato da P. David Maria Turoldo, dalla sua incandescente passione per Dio e per l'uomo, da don Lorenzo Milani, una talare che non aveva spento l'evangelo, come non aveva spento l'evangelo quella stinta di Helder Camara.
Sono stato segnato dal Concilio. E ora -te lo confesso- nella stagione della spettacolarizzazione provo un brivido alla schiena, ora che il vento non investe più i nostri volti e da nomadi ci siamo fatti sedentari. E sento a giorni il vuoto, il vuoto del vento.
Sono stato segnato da incontri: ogni giorno più d'uno, in questa città, la mia. E ne ringrazio Dio.

Ma tra i grandi profeti e forse anche più dei grandi profeti, due bambine.
Stravolgendo forse il senso del passo -non me ne abbiano gli esegeti!- ho nel cuore pensato alle due bambine, ricordando le parole di Gesù nel Vangelo di Matteo: "Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista. Tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui" (Mt 11, 11).
E dunque segnato, segnato per sempre dal "sottovoce" di una bambina: "E chi mi parlerà sottovoce di Dio?".

Il "sottovoce" non trova -confesiamolo- né udienza né consensi in certi ambienti ecclesiastici, dove si è pronti a interpretare -cattiva interpretazione!- il "sottovoce" come dismissione, come esitazione nella fede, come impallidimento della convinzione, come timidezza, come resa.
Tutt'altro. Parlare sottovoce di Dio non significa -come purtroppo taluni dogmaticamente tentano di far credere- rimpicciolire Dio, ma, se mai, farlo più grande.
Sottovoce, perché del mistero di Dio possiamo solo balbettare qualche cosa. Con pudore. Il mistero è al di là, molto al di là della povertà delle nostre parole. Al di là della soglia.
Sottovoce, ancora, perché dell'amore sbandierato ai quattro venti è giusto, legittimo, dubitare, sospettare. Il "sottovoce" ha invece il passo silenzioso dei racconti che nascono dal cuore.
Le declamazioni stentoree nascondono il vuoto, le parole sottovoce narrano i legami.
In una stagione come la nostra dove il "sottovoce " sta diventando merce sempre più rara, mi capita a volte di soffermarmi a pensare quale carica profetica abitasse fin da allora le parole di quella bambina di soli nove anni, tredici anni fa.

Ora ti confesso che per gli anni a venire sarò segnato anche dalle parole dell'altra bambina, una bambina della grande città, la bambina di cui ti dicevo dal nome bellissimo.
Questa volta non la strada, ma la chiesa, non la luce incandescente del sole, ma la luce fioca che pioveva dall'alto fino a riempire di brividi i suoi occhi, teneri e tristi a un tempo.
E la sua voce: "...don Angelo, ho una cosa da dirti, ma come faccio a dirtela?". Il silenzio, l'incrociarsi complice degli occhi. E poi, come uno che si toglie il peso: "Lo sai, don Angelo? Il mio papà… la chiesa non lo accetta!".
Vorrei difenderla, ma la ferita, il peso sono già dentro. Hanno scavato nel suo cuore di carne di nove anni.
Sento nel cuore l'indignazione, l'indignazione delle parole di Gesù: "Guai a voi che caricate gli uomini di pesi insopportabili" (Lc. 11, 46).
Portare a nove anni il peso dell'esclusione, peso insopportabile per deboli, piccole spalle.
Fatico a spiegare. Quando c'è troppo da spiegare, qualcosa non va. Faccio fatica a contenere l'emozione. È come se mi si inumidissero, ma dentro, gli occhi. Forse la bambina ha capito. Mi guarda con dolcezza come da una terra prima sconosciuta. Mi chiede sommessamente: "E tu, don Angelo? Tu lo accetti?".

Una voce dentro chiede con fermezza: non cancellare, non cancellare mai più dalla tua vita, dal tuo essere prete, gli occhi che si illuminano e si inteneriscono sul punto di dirti: "E tu, don Angelo, tu, il mio papà lo accetti?". Non dimenticare.
Noi siamo uomini di deboli memorie. Quando il ricordo tenderà ad affievolirsi, il Signore me lo riaccenda nel cuore: "E tu… lo accetti?".

E se puoi, se ti riesce, non scrivere, senza aver prima ricordato quegli occhi. Se puoi, se ti riesce, non dire parole senza averli prima fissati. Non staccarti, non staccarti mai da questi luoghi, i luoghi dell'emozione.
Qui sta infatti il pericolo, qui sta il male: chi scrive, chi parla, spesso conosce tante cose, ma non conosce questa, non conosce la bambina di nove anni, non conosce l'emozione del suo viso fragile e triste.

Qui sta il pericolo, qui sta il male: non si conosce, ma si parla; non si conosce, ma si scrive.
Di questi bambini che vivono situazioni familiari non comuni si scrivono articoli spesso ingenerosi, dipingendoli come fossero svuotati di ogni interiorità e profondità. E poi Dio fa le sorprese. Le sue.
La bambina, nove anni, dal nome bellissimo, mi incantava per la sua interiorità: una profondità rara in una bambina della sua età.

"Sai, don Angelo… il mio papà la chiesa non lo accetta". Mi prende tristezza da morire al pensiero che una bambina di nove anni già porti questo peso sul cuore.
Forse dovremmo sentirci più responsabili delle immagini che diamo della chiesa. Per non pesare sul volto di Gesù. Per non pesare sul cuore dei piccoli. E non solo dei piccoli, ma anche dei meno piccoli.
Parole usate come clave, volti induriti e inflessibili, toni definitori e arroganti, lo sguardo che ti giudica. "Sei sotto l'occhio, come quando vai in una banca…": mi diceva oggi una ragazza al telefono.
Sono atteggiamenti che tradiscono il volto di Gesù, fanno crescere nel cuore il peso dell'esclusione.

È proprio così inutile chiederci di tanto in tanto: queste parole, questi gesti, queste decisioni, questi toni quale immagine di Dio e quale immagine di chiesa evocano in chi silenziosamente, spesso dalla sua distanza, interroga i segni? Immagini di accoglienza o immagini di esclusione? Segni di Dio o dell'antidio?
Ognuno di noi -penso- ha occhi, intelligenza e sapienza dello Spirito per interrogarsi su quanto purtroppo in questi giorni sta avvenendo. Per interrogarsi e per trarre qualche conclusione.

Darò ancora una volta prova della mia ingenuità: come arrivare a esprimere disagio per l'immagine della non accoglienza?
E se cominciassimo a raccontare le storie che viviamo, quelle che soffriamo sulla pelle? Anche ai Vescovi, alle Congregazioni romane? Raccontare la storia, semplicemente la storia della bambina di nove anni, dal nome bellissimo.

E, ancora, se, forti della convinzione che la chiesa gli uomini e le donne del nostro tempo la intravedono anche in noi, testimoniassimo, a tutti i livelli, l'accoglienza -"Tu… l'accetti?"- e non l'esclusione?
Se testimoniassimo l'immagine di una chiesa non pietra d'inciampo, ma compagna di viaggio -e quale!- nella carovana dell'umanità?
Forse gli occhi della bambina sarebbero meno tristi, sul cuore le peserebbe meno dolore. Forse sorriderebbero anche gli occhi di Gesù.

don Angelo


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