articoli di d. Angelo


 

BEATI I RAGAZZI E LE RAGAZZE

Aperto, chiuso. La stessa immagine. Ad aprire e a chiudere il raduno la luce di un volto: quello di Anna ad aprirlo, quello di Elisabetta a chiuderlo. Ancora una volta su un marciapiede.
Quante cose avvengono sui marciapiedi di una città, i nostri marciapiedi che si vanno restringendo sempre più, impauriti dall'assalto delle nostre auto.
Avviene di tutto sui marciapiedi di una città. Avvengono anche le nostre convocazioni minori, i nostri piccoli appuntamenti quotidiani. Avviene talvolta anche la stranezza di una convocazione maggiore: "dov'è il raduno del 27 gennaio?". "Ci si incontra sul marciapiede, lungo la strada che costeggia lateralmente sulla destra la Stazione Centrale". Così per il raduno proposto quest'anno dalla Comunità di S. Egidio, nell'anniversario della deportazione degli ebrei dalla città verso i campi di sterminio.
Dove ci si incontra e dove ci si lascia? Ci si incontra su un marciapiede lungo le strade, ci si lascia sul marciapiede a lato dei binari: quanti treni per questi binari! E quanti sogni su questi binari, quante fatiche, quante parole, quanti silenzi, quanta vita e quanta morte!
Quest'anno l'incontro è quasi più sobrio e forse per questo più intenso. Non ci sono i discorsi delle autorità, che spesso prendono il tono alto delle declamazioni. C'è però un brivido che ti passa tutta la schiena dall'alto in basso, il brivido ai canti accorati dei ragazzi e delle ragazze ebree. Ho interrogato i loro occhi bellissimi per tutta la sera, mi rispondevano con i canti struggenti dei salmi.
Tra un canto e l'altro racconti di deportati: il racconto scritto di Liliana Segre, quello dal vivo, fatto di pianto sommesso e soffocato, di Goti Bauer. Non ce la fa a parlare, ringrazia i giovani, i giovani che ricordano, e basta. Basta così. Si è giovani, paradossalmente, finché si ricorda.
Basta così. Ti viene consegnato un fiore di gerbera. Deponilo, ma fallo con tenerezza, senza pesare, vicino al cippo che nella Stazione Centrale sta a dire che di qui sono partiti. Basta così.
Basta così. E ricorda la luce del volto luminoso di Anna che ti ha salutato all'ingresso, quasi più con la complicità degli occhi che con le parole appena sussurrate. Ricorda la luce del volto luminoso di Elisabetta che, chissà come, c'è sempre quando presso i binari della Stazione fai la mossa di andartene, sempre a dirti la gioia che ci sei stato.

Oggi è domenica e parlerò delle beatitudini. Non parlerò né di Anna né di Elisabetta, né dei ragazzi né delle ragazze ebree, ma in controluce nel fondo delle mie riflessioni -quelle che mi è caro ogni domenica spartire con la mia gente- ci saranno anche loro.
Beati voi, ragazzi, beate voi, ragazze: la stessa magia, la stessa aria che ho respirato anni fa sul monte delle beatitudini.
Qualcuno, lo so, mi passerebbe per esaltato, se dicessi che lungo un marciapiede della città e lungo i binari di una stazione ho respirato a pieni polmoni, quasi a colmarli, l'aria del monte di Gesù. Eppure è così: là in Israele, poco sopra il lago, anni fa, in pieno giorno e qui a Milano, poco lontano dallo sferragliare dei treni, in una sera di fine gennaio, impigliate nell'aria, le parole miracolose delle beatitudini.
Oggi Gesù direbbe: "Beati, beati voi ragazzi, beate voi ragazze". E vedere i loro volti illuminarsi alle parole di Gesù!
L'omelia quest'anno non potrà partire se non da queste emozioni, dal senso di beatitudine che ti prende al cuore, quando fatti come questi accadono nella città, nelle pieghe nascoste di questa città.
Ci siamo sentiti spesso ripetere che le beatitudini del monte sono la "magna charta" del cristianesimo. Ed è vero. Ma capita, e non è così raro, che se ne perda il cuore.
Se ne perde il cuore quando si dimentica che, prima ancora che insegnamento di vita, prima ancora che invito a trasformare il nostro modo di pensare e di agire, prima ancora che un orizzonte morale, le beatitudini sono "lieta notizia".
Posso sbagliarmi, ma a me sembra che spesso, troppo spesso, noi scivoliamo, glissiamo, sulla prima parola, la parola "beati": "beati... beati... beati...".
Le beatitudini sono prima di tutto un annuncio di felicità. Perché Dio, al di là di tutte le contorsioni della sua immagine avvenute nel tempo, è un Dio che ci vuole beati, ci vuole felici. È il Dio che, quando vide l'Adam, il terrestre, infelice, infelice per la sua solitudine, gli portò nel sonno Eva, la donna.

Ma la cosa ancora più stupefacente è che le beatitudini sono una proclamazione di felicità per tutti: infatti vengono proclamati beati quelli che spesso, troppo spesso, sono tenuti lontani dalla felicità, quelli che si sentono poveri davanti a Dio, quelli che sono umili, quelli che non vivono di sotterfugi, quelli che si ostinano per la pace.
C'è qualcuno che li difende: dicono le scritture ebraiche, dice Gesù. Dio si fa un suo dovere, suo punto d'onore, di proteggere quelli che nessuno difende, quelli che nessuno protegge.
Non perché voi siete buoni Dio vi difende, ma perché nessuno vi difende, perché nessuno vi protegge. Ecco, il regno di Dio si è fatto vicino a voi, a voi che non siete arroganti, non siete superbi, a voi che vi sentite poveri, a voi che vi sentite niente davanti a Dio, a voi umili della terra. Beati voi...
Immaginate, immaginate per un momento gli occhi di quei lontani uditori: il profeta di Nazaret diceva che il regno di Dio era per loro. Parlava al presente: "Vostro è il regno di Dio". Di loro, povera gente, gente normale, senza titoli e senza ascendenze, di loro che non appartenevano a nessun gruppo religioso, di loro che indossavano le vesti della fatica, della fatica di tutti i giorni.
Immaginate come si dovevano accendere a quella parola i loro occhi, i loro volti. Era come se quel maestro dicesse: protagonisti siete voi! E portavano vesti di normalità. C'era da alzare il capo, c'era da cavar fuori tutte le forze. Era come se risuscitassero dentro: Dio aveva scelto loro.
Siamo lontani -lontani anni luce- da certe interpretazioni masochistiche dellla fede cristiana. Dio non ci vuole ingrigiti, immusoniti, scontenti di noi stessi e del mondo, volti cupi. Ci vuole popolo delle beatitudini, costruttori del regno, piccoli come siamo, per quanto piccoli siamo. Anche se ci sentiamo poveri davanti a lui, proprio perché ci sentiamo poveri davanti a lui.
Perché sulla terra, su questa terra che amiamo, accade, accade qualcosa del cielo, non in forza dei superbi, degli esaltati, dei violenti, degli intriganti, degli spietati. Accade, già da ora, qualcosa del regno, in forza degli umili, di quelli che sono giudicati deboli, "non vincenti".
Sono giudicati non vincenti, eppure con la loro semplicità, con la loro tenerezza, con la loro limpidezza, con la loro resistenza alla falsità, costruiscono pezzi di terra più sana, più vivibile.
Sanno essere fedeli, si schierano per la giustizia, rialzano chi è caduto, sostengono coloro che nessuno sostiene, l'orfano e la vedova, e se riescono, tentano di sconvolgere il piano dei potenti.
Lo sappiano o no, siano credenti o no, fanno le cose che fa Dio, le cose che ci fanno beati, veramente beati.

Qualcuno può giudicare un'ingenuità questo piccolo gruppo di uomini e donne, questi ragazzi e queste ragazze, ebrei e cristiani, che tengono accesa nel via vai di una stazione una memoria. Quelli che amano i bagni di folla possono sorridere di questi ragazzi che onorano il silenzio nel luogo del massimo rumore. Sono ben altre -direbbe qualcuno- le strategie.
Ho visto bagni di folla, ho visto nuovi tribuni marciare in testa a colonne di popolo, ho visto quelli che anelano alle loro quotidiane esibizioni televisive e non ho trovato la luce, la luce di questi ragazzi e di queste ragazze, cristiani ed ebrei. Erano volti pallidi, senz'anima, incolori, appiattiti nell'esibizione, senza accensioni se non quelle del potere, della vanità, del denaro.
Negli uomini e nelle donne delle beatitudini, nei loro occhi e sui loro volti, ho visto la luce. Secondo le parole di Gesù.
"Voi" -disse, e non era un'esortazione, era una constatazione- "voi siete il sale della terra, la luce del mondo".

Siete voi che date sapore a questa terra, siete voi che portate luce in questo mondo, voi che vivete le beatitudini.
Il sale dà sapore. Importante il sale. Certo non è tutto. Ma i cibi migliori, senza sale, non hanno sapore e non c'è gusto a mangiarli.
Voi mi capite, una vita in cui c'è tutto o quasi tutto, ma non c'è sapore, non c'è gusto di vivere, tutto è insipido.
I discepoli veri di Gesù non sono quelli disgustati, senza gusto di vivere -ma allora, il sale dov'è?-. Non sono quelli arrabbiati contro tutto e contro tutti, arrabbiati con la vita.
Sono quelli che hanno il gusto di vivere, quelli che danno sapore, danno significato anche alle cose più piccole della vita: sono sale per questa terra.

E sono luce. Sì, perché se sei umile, sei luminoso; se sei afflitto ma non arreso, sei luminoso; se sei mite, sei luminoso; se sei compassionevole, hai la luce di Dio, del Dio compassionevole, nei tuoi occhi e sul tuo volto.
Le due metafore, quella del sale e quella della luce -così mi sembra di capire- alludono anche a uno stile, lo stile che contraddistingue il vero discepolo di Gesù.
Nel mondo, ma come la luce. Silenziosa la luce: chi tocca mai la luce? Neanche la vediamo a volte la luce. Vediamo i volti illuminati, le pareti illuminate, le strade illuminate.
Se i volti, se le case, se le strade sono illuminati, ringrazia Dio, vuol dire che c'è un po' di luce dentro di te.
Nel mondo, ma come il sale. "Il verbo del sale" -diceva un giorno P. Turoldo- "è quello di sciogliersi, di fondersi, di con-fondersi. Anzi se non si fonde, la vivanda non è buona".
Stando al Vangelo, prima c'è l'immagine del sale che scompare, poi quello della luce che appare. Come a dire che più scompari, più appari.
Più sei sale che si confonde, più diventi luce che risplende.
Ve ne siete andati, ragazzi e ragazze del 27 gennaio, scomparendo nella notte.
E a noi è rimasto un riverbero della vostra luce. Nel cuore il sapore vero della vita.
Nell'aria gelida della sera una voce ancora diceva: "beati...".

don Angelo


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