articoli di d. Angelo


 

CHE NE E' DEL SINODO?

Che ne è del Sinodo? Del Sinodo "chiamato a tracciare le coordinate della chiesa ambrosiana del futuro". "Una chiesa"- dice il Card. Martini nel suo messaggio pasquale - "che riproduca in sé qualcosa del volto di Cristo, amante della verità, forte e accogliente. Vogliamo essere la Chiesa di Colui che è "mite e umile di cuore" e che con la sua risurrezione ci ha reso capaci di amicizia".
Che ne è del Sinodo ?
La domanda è nell'aria. Seicento e più delegati si danno convegno ogni sabato. Da ottobre a giugno.
Si susseguono a ritmo serrato sedute e interventi su tutto quanto può stare a cuore alla chiesa di Milano.
Si discute di Parola di Dio, di Liturgia, di carità, di famiglia e di preti, di laici e di consacrati, di dialogo e di ecumenismo, di società civile e di cultura , di beni artistici e di beni economici, dei mezzi di comunicazione sociale, ecc.
Si discute per enucleare orientamenti per la chiesa degli anni futuri.
Raccontare del Sinodo non è cosa facile. Lo sarebbe se si trattasse semplicemente di segnalare sedute e interventi. A raccontarcelo basterebbe, in questo caso, l'alta fedeltà di un registratore.
Meno facile è andare al di là della nuda cronaca e raccontare ciò che è quasi impalpabile nell'aria.
Quando si va a descrivere l'impalpabile il rischio è di non essere sufficientemente oggettivi o di dar corpo involontariamente alle attese del cuore. E' il rischio confessato di queste mie note sul Sinodo.

"CI SONO" E "NON CI SONO"

Sono uno dei tanti. Uno dei seicento. E sono un prete, un prete qualunque, un parroco.
Al Sinodo "ci sono" e "non ci sono"; non alludo alla mia presenza fisica: fisicamente per lo più sono presente. mi riferisco invece a un "esserci" con il cuore.
Mi succede di essere seduto qui - con i seicento - ma di sentirmi a volte un poco "straniero", quasi fuori paese: quasi patissi una sorta di "spaesamento" e, di conseguenza, la voglia a volte di scappar via. Di ritornare al "paese", o, meglio, alla città: la mia parrocchia è nella grande città.
Poi mi pento del pensiero. E chiedo perdono a quel Signore, da cui mi sento interamente ma anche un po' severamente guardato durante le sedute del Sinodo.
Sul palco infatti, dietro il grande tavolo, dove siedono l'Arcivescovo, il Segretario generale del Sinodo e i Moderatori, campeggia in una gigantografia l'immagine un poco severa del Cristo, assunta quasi a simbolo di questo Sinodo.
A volte - ti confesso - mi perdo a immaginare che cosa pensi di noi, dei nostri lunghi discorsi e, anche, di queste mie note, che rappresentano solo un punto di vista e, come tali, confessatamente parziali.

DALL'ALTO

Tento di spiegare ciò che poco sopra chiamavo "spaesamento".
Il nostro è un Sinodo di gente "impegnata"; numerosi gli interventi; la carta si accumula a dismisura nelle sacche dei sinodali. Ma l'aria - lo si voglia o no - rimane pur sempre l'aria di chi giudica - anche se non volutamente - dall'alto: noi a parlare degli altri; noi, spesso, a sottolineare la "distanza", guarda caso, quella degli altri; raramente a confessare la nostra!
L'aria - lo si voglia ammettere o no - è pur sempre quella di chi ha le risposte, in genere sicure.
Raramente fa capolino la disarmante e umile confessione della nostra inadeguatezza, della fatica a capire che cosa in effetti si muova dentro o fuori di noi, nella nostra chiesa e nella società civile.

PRIORITARIO L'ASCOLTO

Di qui il rischio di un Sinodo che, in qualche misura, parli prima di aver attentamente ascoltato.
Mi si dirà che l'ascolto è precedentemente avvenuto nei giorni della consultazione diocesana. Ma rimane, almeno velato, un dubbio: fu consultazione della gente o, in qualche misura, degli "addetti ai lavori"?
Faccio un esempio: questo Sinodo è stato preceduto da un Sinodo meno ufficiale, il "Sinodo delle donne". Ebbene mi chiedo: quanto di quelle voci e di quelle problematiche hanno trovato eco nei nostri documenti preparatori. In quel Sinodo si parlava di rapporto clero-laiche/laici, dalla riscoperta delle differenza sessuale, di procreazione e di contraccezione, di omosessualità e di coeducazione, di comunità capaci di essere spazi liberi in cui affrontare senza paure gli interrogativi che sono nel cuore della gente.
I nostri documenti pretendono di rispondere a tutto. Sembrano, a volte, prontuari di risposte. Ma le risposte, se non hanno accolto nella sua interezza l'interrogazione, non fanno molta strada. Finiscono per lo più, uno accanto all'altro, inconsultati, nei nostri scaffali.
Assomigliamo, per un certo verso, a quei "coniugi-carta patinata"che una volta venivano esibiti ai Corsi per fidanzati, con il risultato che i ragazzi li sentivano tremendamente distanti. Il disagio della distanza veniva loro dalla sensazione di non essere stati precedentemente accolti nella loro spietata domanda.

NORMARE L'ASCOLTO ?

Io non penso che un Sinodo possa "normare", comandare l'ascolto. Eppure qualcosa di quella chiesa del futuro che, anni fa, l'Arcivescovo sognava - una chiesa che ascolta prima di parlare e che parla solo dopo aver ascoltato - dovrebbe sentirsi nell'aria di un Sinodo.
Sarebbe "buona notizia" una chiesa che parlasse solo dopo aver ascoltato. Dopo aver ascoltato il Vangelo e la gente. La gente e non le sagrestie.

VOCI DI DONNE

Stranamente, ma non troppo, le voci, quelle più libere e più fresche, al Sinodo - acqua chiara e non stagnante - sono, a mio avviso, quelle delle donne, laiche o consacrate, ma donne.
Sarà -mi son detto - perché meno inclini di noi a teorizzare, più abituate di noi a fare i conti con la realtà concreta - quella delle persone, soprattutto -, più attente ai volti che ai numeri, più sensibili ai percorsi che alle definizioni, più allenate di noi, forse, a vedere "l'oltre" quell'"oltre" che è vero e reale. Più vero e reale di tanto nostro cieco e gelido realismo, il realismo di tante nostre fredde statistiche.
Loro forse più di noi capaci di interpretare il paradosso. Il paradosso anche di quelle parole che, un lontano mezzogiorno al pozzo di Sicar, parvero strane a dei maschi - ed erano discepoli! -, parole di un "Visionario" alla donna samaritana. Quel "Visionario" che ora ci guarda dal palco: "Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura"(Gv. 4,35).

10 FEBBRAIO 1981

Parole molto vicine a quelle di un altro "visionario" che ora siede sul palco che, anni fa, sognava una chiesa "attenta ai segni della presenza dello Spirito nei nostri tempi, ovunque si manifestino".
"Una chiesa"- scriveva - "conscia del cammino arduo e difficile di molta gente d'oggi, delle sofferenze quasi insopportabili di tanta parte dell'umanità, sinceramente partecipe delle pene di tutti e desiderosa di consolare.
Una chiesa che porta la parola liberatrice e incoraggiante del Vangelo a coloro che sono gravati di pesanti fardelli, memore delle parole di Gesù: "Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito"".
La lettera porta una data: 10 febbraio 1981.
Non sarebbe male - penso - che un Sinodo si chiedesse se a quella lettura fu data o no risposta.

don Angelo

MAGGIO 1994

SPETTACOLO E SACRAMENTI: A QUALE PREZZO ?


C'è qualcosa che non mi convince.
E se queste saranno le strade del futuro, ti confesso che mi ritroverò, penso, solitario, ai margini, come uno che non ha il dono di capire questa "modernità".
Ci sono troppi segnali inquietanti nell'aria che mi fanno temere che, al di là delle cose dette, si stia imboccando - anche in campo ecclesiale - la via della spettacolarità. Anche a proposito di sacramenti!
Ci è consentito - mi chiedo - impunemente svenderli, dandoli in pasto allo spettacolo?
E a quale prezzo, se in qualche misura non torneremo a onorare la disciplina dell'arcano che un tempo proteggeva il sacramento dagli occhi indiscreti, dalla curiosità malsana, dal pettegolezzo mondano?
Evocare il sacramento non significa forse evocare una terra sacra, fatta di silenzi? E tu che indugi sulla soglia, con il fiato sospeso. E la voce che ammonisce: "Togliti i sandali dai piedi perché il luogo dove stai è una terra santa" (Es. 3,5).

UNA SENSIBILITA' MALATA ?

La mia - lo confesso - sarà una sensibilità eccessiva o malata, ma è - a mio avviso - nell'aria qualche segnale che ci potrebbe rendere preoccupati della deriva cui sembra giungere il sacramento.
La mia sarà indubbiamente una sensibilità malata, ma oggi, giorno della Liberazione, non posso non provare disagio all'annuncio che un capo-partito organizza una Messa con i "suoi", quasi a benedizione delle sue idee circa la liberazione o, peggio ancora, che un altro si procura una Messa nella cappella della sua villa (sic) per ricordare "in famiglia" i morti della liberazione.
Nella mia fantasia, certo malata, rivivono d'un tratto vecchi fantasmi, che ritenevo seppelliti per sempre, figure di cappellanie e di cappellani di corte, che pensavo definitivamente scomparse!
E mi chiedo quale immagine di Messa e di sacramenti in chi ne leggerà notizia sui quotidiani.
E la risposta, forse severa, è che nei più "vicini" si va a perpetuare l'immagine di un sacramento con cui si è soliti benedire quanto abbiamo deciso noi o quanto a noi sembra; nei più "lontani" la fuga da questa teatralità che suona così distante da un mistero, da un "oltre", che ancora inquieta e seduce il loro cuore.
Non dovremo ritornare a proteggere il sacramento da un eccesso di esteriorità, pena il tradirlo nell'avvilimento e nell'insignificanza?

CRONACA DALLA BASILICA

Me lo sono chiesto, leggendo - ti dirò: con un certo disagio - sui giornali, in particolare sul quotidiano dei cattolici, la cronaca del Papa sceso a confessare il Venerdì santo nella Basilica vaticana "dalle 12.10" - è scritto - "alle ore 13.25" (sic!).
Questo cronometrare il sacramento questo rastrellare nomi e cognomi di chi si era confessato dal Papa! E l'"arte" di convogliare dal Papa confessore - quasi fosse un privilegio - coppie programmate di sposi, perché - già - questo è l'anno internazionale della famiglia! Fino a riportare, quasi divertiti, la battuta del Papa sulla lunga coda dei penitenti: "Siete troppi? Ci vorrebbe un anno per confessarvi tutti!"… tutto questo - forse è ora che ce lo diciamo con franchezza - è il contrario, esattamente il contrario, di ciò che noi chiamiamo il cammino del sacramento della penitenza, il contrario, esattamente il contrario, dell'umile sforzo di una chiesa che desidera risignificare questo, che, tra i sacramenti, è uno tra i più difficili forse da ridisegnare.

LA MATERIA PIÙ UMILE

Non è forse vero che il Signore Gesù - forse anche a salvaguardare l'evento sacramentale da ogni spettacolarità - ha scelto come luogo dell'accadimento la materia più ordinaria, la più umile: il pane, l'olio, l'acqua, la parola del perdono, il gesto dell'amore…quasi a dire che la cosa di cui stupirsi, la materia che si fa lembo del mantello del Signore, il corpo dove arde lo Spirito non ha nulla di eccezionale nel senso della curiosità mondana.
Eccezionale è il silenzio, in cui stupirsi di un Dio, che ama, per il sacramento come per l'incarnazione, la strada delle cose umili e povere, quelle che, dopo tutto, fanno il pane vero della nostra vita.
E dunque il silenzio come terra che protegge il sacramento, come passaggio ineludibile per ogni accadimento vero, cioè del cuore.
Il resto è eccezionalità vuota, assenze e vanità: di celebrazioni degli uomini - specie se potenti e importanti - è piena la terra. Non è certamente questo che si va a chiedere a una chiesa. Guai se, varcandone la soglia, ritrovassimo le stesse cose che fanno disagio nella vita quotidiana e non invece la luce e la forza per cambiarne le insensatezze.

IN UN ANGOLO

Per questo, se le scelte del futuro andranno sempre più per le strade del "suonare la tromba", anche attorno ai sacramenti, me ne starò - Dio mi perdoni - un poco in disparte, come uno fuori del tempo, in un angolo della chiesa, dove per fortuna non c'è pericolo entrino cantastorie o fotografi, magari in un confessionale un poco scomodo, ad ascoltare, trasalendo, il passaggio di Dio, più vero di quanto comunemente si pensi, nelle storie degli uomini e delle donne del mio tempo a ridire con loro, nel silenzio, la sorpresa per un Dio, più grande del cuore che ci accusa.

don Angelo


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